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L’albero dei “càlum” (ciliegia - durone) di Ronco

CULTURA E SPETTACOLO - 30 06 2021 - Ezio (Méngu)

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/I “càlum“ della pianta di Ronco
I “càlum“ della pianta di Ronco

Vicende di Gente di Montagna

L’albero dei “càlum” (  ciliegia - durone  ) di Ronco.

Non prendetemi per un eretico ma una cosa ve la devo dire. I vecchi, in quel di Ronco, raccontano che nel libro della Genesi c’è un errore di trascrizione dall’aramaico al greco. Dove sta l’errore? Nel libro si narra che Eva staccò la mela dall’albero del Paradiso Terrestre e poiché vide che era buona ne mangiò con Adamo e… poi successe quello che è successo.  Ebbene , Battista, detto il salmista,  si ostina nel dire che Eva non staccò dall’albero una mela, ma da un ubertoso ciliegio staccò un “càlum”, ( ciliegia -durone) anzi ne staccò due.

 

Poiché vide che erano  rosati, duri al punto giusto e gustosi alla vista li staccò dal picciolo, ne gustò la fragranza, e Adamo fu consenziente . Quell’albero di ciliegio era in quel di Ronco e se il più acuto esegeta potrebbe obiettare che Ronco non esisteva al tempo della creazione e che il Paradiso terreste era situato tra i due fiumi Tigri e Eufrate , Battista dice categoricamente che non è così. Il Paradiso Terreste era a Ronco,  e guardava a valle tra due fiumi , L’Adda e il Poschiavino   e in quel di Ronco vi era piantato un albero dei  “ càlum “ , che sono  di quelle ciliegie  che se ne mastichi una  entri in un particolare  tunnel del gusto e vieni trascinato in un orgasmo primitivo che solo Adamo ricorda. Ecco perché  il creatore ha vietato di mangiare dell’albero dei “ calùm “.  Ebbene quell’albero piantato al tempo della prima creazione  prosperò a Ronco fino al tempo in  cui avevo dodici anni. L’ho ancora negli occhi. Era piantato in un terreno di una anziana signora di nome Angela e stanziava poco distante della nostra baita. Quel ciliegio era una meraviglia ! Il suo tronco era liscio come un palo della cuccagna, la sua chioma al tempo della maturazione dei duroni , era una sinfonia di colori e uno svolazzare di uccelli golosi.

 

Quelle ciliege pendevano dalle lussureggianti foglie come orecchini di donna , spettacolo da far innalzare  al cielo mani di pentimento ad un prete tiranese che si era imposto il diniego del” frutto proibito. “ Il colore bianco rosato dei  grossi “ calùm “ erano tali da sembrare pesche nane e diffondevano nell’aree una frescura che solo la brezza del mattino può dare. Chi vedeva quell’albero con le ciliegie mature  era tentato di non osservare il settimo comandamento, commettere furto gustando i “ calùm “ degli altri. Battista, sottovoce diceva che quella visione fosse insopportabile persino a Gesù sul Monte delle Tentazioni.  Ebbene, allora dodicenne, sono salito su quell’albero di duroni, ne ho fatto una scorpacciata, con una pancia da far invidia a un gatto che ha mangiato una pantegana del suo peso e ho peccato. Ho rubato e ho peccato e per giunta ho fatto falsa testimonianza. Cosa era successo nel luglio del 1953 nel Paradiso Terrestre di Ronco?

 

La signora Angela, anziana  custode dell’albero, teneva d’occhio la pianta  giorno e notte durante il tempo della maturazione dei duroni, fuorché nell’ora domenicale della s. Messa a S. Rocco. Giungeva persino a “ cannoneggiare “  a colpo di pignatta gli uccelli che si acquattavano tre le foglie beccando i duroni. Alla perfetta maturazione faceva intervenire un suo nipote che ad una ad una le staccava lasciandone  sull’albero nemmeno  l’ombra  in modo tale che gli uccelli svolazzavano intorno alla pianta con occhi lacrimosi.  Ma la signora Angela  non aveva fatto i conti con me. Sebbene l’arguta signora mi avesse proibito mille volte di salire sull’albero e mangiarne dei frutti, gliela “ petài séch cùma ‘n ciòo “  (la feci fessa). Non solo  la feci a lei,  ma anche a mia nonna che essendo amica della anziana signora e conosceva  i miei vizietti,  mi aveva messo in guardia  minacciandomi  con “ ìl taredèl déla pulenta “ ( mattarello )  di non osare salire sull’albero  e mangiare i “ càlum “ . Era una domenica mattina e  tutte le persone che abitavano negli alpeggi di Canali, Ronco, Piscina, Forte  si recavano alle ore 10.00 a messa a S. Rocco, celebrata dal reverendo parroco di Villa di Tirano.  Questa brava e pia gente, con loro, portavano anche i ragazzi e i bambini , insomma tutti quelli che si potevano reggere sulle gambe. Dunque  gli alpeggi dei dintorni praticamente per due ore rimanevano deserti. Gli unici che potevano rapinare i “ calùm”  di Ronco erano gli uccelli. La signora Angela lo sapeva e perciò era  tranquilla come una “ pasqua “ .  Giunti a S. Rocco insieme alla “ tribù d’alpe “ mia nonna mi comprò un gelato da 10 lire dall’eroico e unico gelataio di Tirano che per l’occasione con il suo  carrozzino motocicletta era giunto nel piazzale della chiesa.  Il prete suonò la campana per inizio della S. Messa e la turba di gente entrò in chiesa alla spicciolata prendendo posti nei banchi. Io chiesi a mia nonna se potevo assistere la S. Messa sul portone di ingresso essendoci una gran calura. Mia nonna stranamente disse  “ sì “, e mi sorrise anche la signora Angela.  Entrarono in chiesa  e si assisero  nei primi banchi però tenendomi d’occhio sul portone d’ingresso.

 

Dopo poco a causa dell’affollamento , alle due donne fu preclusa la mia vista.  Con un rapido retro front  e come una lepre imboccai il sentiero che attraversa la Valle della Ganda, passai sotto il “ Crap del Còren”  e tempo un quarto d’ora giunsi alla pianta di “ càlum “ di Ronco. Tra una scimmia e il sottoscritto, il sottoscritto certamente  avrebbe battuto la scimmia nella salita alla pianta. Mi misi in posizione tra i rami e, pancia mia fatti capanna. Pelai i  rami da quasi tutti i duroni e per guadagnare tempo con le ciliege mangiai anche i rispettivi noccioli. Ricordo che lasciai cinque “ calùm “ nei rami alti come olocausto e ringraziamento al Signore. La mia canotta bianca si ridusse  in un colorino “ maglia rosa “  come la portava Coppi,  per via del nettare dei duroni  colato dalla mia bocca. Con una pancia da gatta in cinta, scivolai lesto dal tronco della pianta , ripresi il sentiero per S. Rocco. Assetato e accalorato bevvi  alcune sorsate d’  acqua di sorgente in Valle. Giunsi alla chiesa di S. Rocco  proprio al tempo del commiato e della benedizione del prete. Mia nonna e la sua amica mi videro, all’uscita,   presso il portone con l’aria volutamente annoiata. L’avevo fatta franca. Tornammo a Ronco ma alla sera mi sentii poco bene, mi doleva la pancia ed  ero rosso in faccia. Mia nonna mi mise il palmo della mano in fronte e disse: “ tagh’ée la fébra “ ( hai la febbre ) . Poi aggiunse “ forse ti ha fatto male la polenta e salsiccia di oggi, sei ingordo, mangi troppo in fretta “ . D’un tratto ecco giungere l’anziana donna, quella della pianta dei duroni, trafelata e disperata che grida . “ quandu ‘n séra fò la fò a Mèsa i ma màiaa  giù i durùn,   ià lasàa  gnàa la suménsa! “  . Io,  accanto al focolare, facevo finta di leggere il giornalino  “ topolino “ ma intuivo che se la donna avesse avuto tra le mani il mangiatore dei suoi “ calùm “ l’avrebbe ucciso.  

 

“Le due donne confabularono tra di loro per un buon quarto d’ora poi la donna se ne andò borbottando qualcosa al cielo. Mia nonna, mi guardò, guardò la mia canotta   e disse: “maranèl de ‘n bòcia te gh’è l’è facia alla végia, oltru che mal de pansa, ti tàa seé ìnpansàa de càlum “ . “ àva, mi  no, mi no, u mìga maiàa i càlum “ gridài alla nonna con voce sempre più debole finche mi portò a letto e mi fece bere una tazza di tisana di tiglio. La notte passò quieta, sentimmo soltanto la “ gir “ ( giro ) muoversi tra le lamiere del tetto. Appena sveglio  dissi alla nonna che mi scappava la pupù. Di solito mi faceva andare a fare il mio bisogno nel bosco, ma vedendomi ancora un poco indisposto  me la fece fare nel catino. Fu  un attimo ma sembrava fosse venuto la tempesta per i colpi metallici nel catino. Fu una scarica  di noccioli di ciliegia. Fatto il bisogno, mia nonna guardò la cacca e disse “ la ma par ‘n turùn mandurlàa , ècu ‘ndùa iè fini a càlum de l’Angela “  ( mi sembra un torrone mandorlato, ecco dove sono finiti i  duroni dell’Angela )    Mi prese per le orecchie e disse, ponendomi la testa sopra il catino “ Prendi il catino, vai  ne bosco e contami quanti noccioli ci sono nel catino, vai subito sennò chiamo l’Angela e per te si impatta male “ . Dopo un quarto d’ora tornai puzzolente e disse alla nonna “ ne ho cantati 132, meno sei che erano disintegrati “ Le sera dopo la nonna durante il rosario con la signora Angela mi fece dire 132 “ Ora Pro Nobis “,  ma non svelò mai chi fosse stato a  “ pelare “ la magnifica pianta di “ calùm “ del Paradiso di Ronco. Nel 1980, quella pianta forse a causa della  monilia, malattia fungina delle piante da frutto si ammalò  e seccò. E per Battista, il salmista fu un segno di un castigo divino,  poiché di “ calùm”  deliziosi  come quelli di quella pianta, che io sappia, nessuno ne mangiò più.  

 

Ezio (Méngu)

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