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La "Véra" nuziale della Rosina

CULTURA E SPETTACOLO - 23 03 2021 - Ezio (Méngu)

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/vera nuziale

Se oggi seren non è , domani seren sarà se non sarà seren si rasserenerà.

o anche oggidì

Se oggi la Regione Lombardia di color bianco non è, domani color bianco sarà, e se bianco non sarà, il colore bianco verrà.

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Vicende di Gente di montagna.

 

 

La “ Véra “ nuziale della Rosina

na bùna grignàda la val de pü de ‘na bùna mangiàda. (Méngu)

 

Rosina era una “filosofa” montanara di grosso stampo, di quelle persone che i drammi della vita non le piegano, anzi sono loro a piegare gli eventi e fare in modo che tutto ricominci nel solco di una nuova realtà vivibile. Il buon montanaro si piega come un giunco sotto gli eventi per poi raddrizzarsi più fresco di prima. La Rosina era una di queste persone. Bella in viso, dai lineamenti celtici, di quelle gatte che se non stanno al gioco ti conviene mollare per la tua incolumità. Aveva due trecce da liana che le scendevano sin dove l’occhio del giovane batte. I fianchi e più giù facevano pensare ad una “ viola d’amore “ anche all’uomo votato alla castità. La sua voce era talmente argentina e accattivante che un mitico Ulisse legato a una “ priàla” avrebbe stroncato una doppia fune di cuoio pur di fermarsi ad ascoltare il suo canto.

 

Mah… però anche lei aveva un ma! Era rimasta vedova da Luigi detto “ sfudeghìna “ con una figliola in giovane età. Luigi, montanaro anch’esso, di quelli che bastava un colpo di una manata di piatto su un'altra mano per siglare un contratto come da notaio. Lavoratore da mane a sera, falciatore di prati con coste che nemmeno le galline potevano stare sulle zampe senza rotolare. Forte come un toro e con un cranio rotondo come una pignatta. Raccontano di averlo visto scendere dalla rata della Prima Croce con una “priàla” tutta sgangherata. Bisbigliano di aver visto il Cristo del crocefisso che, dopo aver schiodato la mano destra, aveva benedetto la “ priàla “ ondeggiante che procedeva quasi di traverso in quella paurosa discesa. La “ priàla” aveva preso velocità travolgendo il cavallo fino alla piana. Luigi quando vide il cavallo azzoppato, ne ebbe compassione. Lo tolse dalle “ stànghe” del carro e si mise al suo posto. Trascinò la “priàla” sino alle “cadéne” per poi mettere sotto il “ redée “ e andare con il carro a casa imprecando per la giornata andata storta. Ma se Luigi era così forte perché era morto in giovane età?

 

Molti dicevano che era morto di “ strapazzo amoroso “ e c’è da crederci avendo come moglie la bella Rosina. Luigi, dai lineamenti longobardi e dal fisico possente era stato educato da buon cattolico e aveva sentito il suo Prevosto predicare altisonante che nella Bibbia vi era scritto che il Creatore aveva detto all’Uomo e alla Donna “ crescete e moltiplicatevi” . In verità, si era però accorto che il suo Prevosto non aveva famiglia, quindi non rispettava, lui per primo, l’ordine del Creatore. Luigi, del fatto, ne aveva parlato con un suo amico che prontamente gli aveva detto, forse malignamente, “ i prevàt iè miga mazzàcher cùme nòtri, lur i gòt la roba de i òtri ! “ . Luigi era un buon cristiano e cercava di “moltiplicarsi” più che poteva facendo tre volte al giorno il suo dovere coniugale con la Rosina. Forse per lui erano “ esercizi spirituali “ per imparare a moltiplicarsi, ma il bravo uomo a furia di esercizio impostogli anche dalla Rosina fini per tirare le cuoia. Pace all’anima sua e beato chi è morto durante quei santi “ esercizi “, pensano le anime più terrene. Luigi e Rosina avevano una baita in montagna, proprio sopra Ronco. La casa era circondata da ubertosi prati che davano da vivere a tre mucche e ad alcune pecore. Rosina era rimasta sola con la figlia piccola e doveva lavorare da mattina a sera per vivere del suo. La cosa andò avanti per tre anni, finche un giorno piantò la “ triénza “ del letame della stalla e disse: “, pòrculi, chilò ‘l gà völ ‘n um !” . In verità , poco distante da lei, in una baita, vi era un uomo, anzianotto, diciamo sui cinquant’anni.

 

Era un “ bàrba “ ma lavorava come una bestia curando i suoi campi, le selve, i prati e i boschi a puntino. Era un uomo taciturno, di quegli uomini che quando vedono un bella donna fanno finta di non vederla ma, con l’occhiolino trasversale, le fanno la radiografia al telaio. A Rosina non dispiaceva quell’uomo di nome Amilcare. Era un uomo timido e per agganciarlo Rosina studiò una strategia. Occorre sapere che un tempo si andava per mirtilli nei boschi nei dintorni di Trivigno e anche un inesperto, poniamo un milanese, ne raccoglieva a secchi tanti ve ne erano. Si usava persino una macchinetta che sembrava essere un pettine con aghi di ferro . Pettinando la pianta di mirtilli, si riempiva in un batter d’occhio un secchiello da un litro. Orbene Rosina incontrò Amilcare carico d’una gerla di legna e gli disse: “ Amilcare, vàrda chilò che sedèl de ghislùn u ciapàa ilò sùta Trivin. Vöt sagian che iè fresc de busch ? “ Amicare disse “ Tròo giù ‘l gérlu a cà e rüi sùbit de ti “. In un baleno fu dalla Rosina che aveva già preparato una grande ciotola di “ ghislùn “ ( mirtilli ) aggiungendo tre cucchiaiate di zucchero, due bicchieri di vino e mischiato ben bene il tutto. Seduti all’aperto, con il sole che tramontava sulle cime del Caronella, dopo che Amilcare in segreto aveva fatto ancora una accurata radiografia alla dolce sagoma, questa volta con il bene placito di Rosina che se ne accorse, prese il cucchiaio , lo riempì come un uovo e iniziò la degustazione con dei mugolii di compiacimento. Rosina seguiva con attenzione la veloce manovra di degustazione con degli ampi sorrisi. Dopo la settima cucchiaiata Amilcare strabuzzò gli occhi e stette per un attimo attonito. Fece una bocca di mucca e si mise le mani sul “ canarùz “ ( trachea) muovendolo avanti e indietro sempre più velocemente.

 

Diede anche due colpi di tosse e in verità gli scappò anche una scoreggia secca come un corallo, ma fu per lo sforzo della respirazione. Rosina , intuì cosa era successo. Disse con fare stupito ma non troppo a Amilcare che rantolava : “ Amilcare gòo pü su la véra ‘n dèl dìi dèla màa sinistra. Sa vèt che la màa scapàda giu par ‘l sedèl dei ghislùn. Gòo la brüta idea che te lée maiàda giu ‘n séma i ghislùn. Vèta, vèta, ta gà lée sü ‘l gòss cùma ‘n balìn de sciòp . Bev, bev ‘n calès che la ta pàsa giù ! “ . Amilcare fiatava a mala pena, anzi il suo respiro somigliava al fischio del Trenino Rosso del Bernina poiché la “véra” ( anello nunziale ) faceva da lamina e da trombetta. Prese il calice e di bottò lo svuotò in gola come in uno sciacquone di water , poi riprese fiato e colore. La “ véra” era scesa nello stomaco e si era quietata, cosi come l’affanno di Amilcare. Cessarono di mangiare i mirtilli. Amilcare muto e pensieroso fece cenno di salutare Rosa per andarsene alla sua baita. Rosina gli disse: “Amilcare, ora non puoi andare a baita, con la mia “vera” nello stomaco . Pensa a Luigi. Lui, che è in cielo, penserà male di noi due. Fermati a baita da me per alcuni giorni finche la “ véra “ non avrà fatto il suo percorso. Non preoccuparti per quello che penserà la gente. Sanno che ho molto lavoro in arretrato, e penseranno che ti ho assunto a giornata.” Rosina ne approfittò per far fare a Amilcare tutti i lavori in arretrato. Diede a Amilcare un vecchio catino smaltato che usava per lavarsi il viso e il corpo e gli disse: “ E’ natura !

 

Quando ti scappa falla in questo catino, finito chiamami perché avrò il mio daffare nel rovistare e cercare la mia “ véra “. Il primo giorno passò. Rosina setacciò ma non trovò nulla, così il secondo, e il terzo sebbene avesse preparato dei buoni minestroni. Il quarto giorno Rosina incominciò a grattarsi il capo, però quella sera nel minestrone gli aggiunse un bicchiere d’olio e gli preparò una insalata di “ déncc de càn “ che navigava nell’olio. Aspettò ! La notte del quarto giorno, mentre fuori tirava un forte vento e lei era nel tormento, sentì alzarsi dal letto Amilcare che veloce corse a lato della stanza cercando il catino. Si udì un colpo come quello di una pallottola di fucile M1 Garand, quello che usavano gli Alpini . Rosina capi subito, lasciò tornare a letto Amilcare poi rovistò nel catino. Lo trovò senza smalto da un lato dove aveva battuto l’anello. Lì sotto le reliquie di Amilcare ,trovò la “ véra” . Al mattino la mostrò a Amilcare . La “ véra “ era lucida come nuova. Rosa disse: “ Guardala Amilcare come luccica, è un segno divino. E’ segno che Luigi approva la nostra unione e ci benedice”. Amilcare si sentì leggero d’animo e taciturno accennò un “sì” con il capo e finalmente osò dare un bacio sulla guancia a Rosina. Tutti e due sorrisero felici. Raccontarono il fatto al loro Prevosto che disse: “ La “ véra” ha fatto il suo santo e naturale percorso. Rosina, la tua “ véra “ è’ passata vicino al cuore di Amilcare e poi lui te l’ha donata con grande sforzo “ Stettero tutti e tre in silenzio poi il Prevosto li benedisse e disse: “Crescete e moltiplicatevi “.

 

Così Rosina, la “filosofa” montanara, piegata nell’evento tragico della morte di Luigi, aveva saputo fare in modo che tutto ricominciasse da capo nel solco di una realtà vivibile e non faticosa sposando il buon Amilcare.“

 

Ezio (Méngu)

 

Véra= anello nuziale

Sfudeghìna= uno che fa le cose in fretta

Priàla= carro di fieno o legna che si trascina sulla mulattiera

Cadéni = Luogo dove si forma il carro con quattro ruote, mettendo il redée nella parte posteriore del carro.

Mazzachér= uomo di poco valore.

Bàrba = uomo anziano non sposato.

Ghislùn = mirtilli

Canarüz = trachea

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