GIORNO 3 - "LE ANIME DI VUKOVAR"
CULTURA E SPETTACOLO - 28 08 2015 -
Nella periferia di Belgrado, oltre il ponte sulla Sava, solo casermoni grigi ancora una volta tutti scrostati, migliaia di finestre, terrazze e migliaia di vite dietro ognuna di quelle. Oltre i sobborghi, il mare infinito, un mare di campi coltivati, sento il mais che ti solletica le ginocchia ed il grano paglierino poco più in basso, leggermente oltre, piante di patate ed altre che sinceramente ignoro. Ad intermittenza spuntano isolotti di casupole dai tetti rossi e i muri bianchi, così immerse nella pianura da pensare di poterci vivere una vita felice con una donna, un cavallo e poco più.Lungo i binari incontriamo minuscole stazioni: Nova Pazova, Golubivci, Ruma. Dopo ogni fermata i controllori ripassano avanti e indietro per controllare i biglietti dei nuovi arrivati. Tra una stazione e l'altra la pianura continua a stendersi come un mare che ti ruba gli occhi e li porta via con sé sotterrandoli all'orizzonte.
Alle 15:30 ci fermiamo nella stazione di Sid, nella Slavonia meridionale, ultima città serba sul confine, oltre, ci attende la Croazia. È il momento del controllo documenti. Salgono alcuni agenti della polizia serba in rigorosa divisa nera, spalancano le porte dei bagni e, appurato che nessuno vi si nasconda, iniziano a controllare i passaporti. Sono molto puntigliosi e segnalano via radio i nomi di alcuni passeggeri per ulteriori controlli, "Slobodan, Mirko..." e così via.Giunti davanti a noi chiedono da dove arriviamo, dove siamo diretti, e passano oltre. L'operazione di controllo si conclude in un'ora, ripartiamo per dieci minuti e la scena si ripete con le forze dell'ordine Croate, dopo un breve controllo la poliziotta mi sorride e sentenzia: "ok Liuca, welcome in croazia"!
Le case qui cambiano, tutte basse due piani al massimo, regolari, una a fianco all'altra nella stessa direzione. Fuori le automobili, qualche trattore, una catasta di legna malfatta, gli spioventi Asburgici. Giunti alla stazione di Vinkovci saliamo sul bus per Vukovar, siamo in tre più l'autista, non è un posto molto turistico ed è molto meglio così. Passiamo a fianco ad una gigantesca discarica. Mi ricordo della discarica, avevo letto che dopo la caduta di Vukovar, 261 persone tra feriti e medici dell'ospedale furono trucidati con un colpo alla testa e gettati proprio lì, era il 1991.
La storia inizia a manifestarsi in tutto il suo peso.
Vukovar prima della guerra era un porto fluviale molto importante che dalla riva destra del Danubio, fronteggia la Serbia. La città contava 84000 abitanti: 44% croati, 37%Serbi, per il resto ungheresi, cechi ed altre etnie.Quando iniziarono le ostilità, per la paura dei serbi croati di perdere i benifici di cui godevano con Tito e la Jugoslavia, la città venne chiusa in un assedio di 86 giorni che costò la vita a 4000 civili, dei 2000 difensori della città rimasti in vita, molti furono fatti prigionieri ed inviati niei campi i militari in Serbia, alcune centinaia scomparvero nel nulla, e poi ci sono quei 261 di cui vi ho già parlato.
Il pullman ci scarica in centro, dobbiamo trovarci da dormire, mettiamo a punto il nostro piano d'attacco. La tattica è quella di fermarci a bere birrette nei bar con gestori simpatici ed attaccare discorso, ma tutto naufraga quasi subito perché il loro inglese è più limitato del nostro. Ci ritroviamo sotto un sole da Arizona a sudare tutte quante le birrette. Per cercare un po' d'aria facciamo due passi sul Danubio in solitudine, quasi nessuno per le strade. Mentre pensiamo che così conciati non ci accetterà nessuno, conosciamo Boris.
Boris lavora poco fuori Vukovar, non ho ben capito di che cosa si occupi, ma so per certo che da poco con i suoi famigliari ha aperto un piccolo bed and breakfast, proprio al centro della città ed è proprio a quel citofono che si sono appese le nostre ultime speranze. Ci offre asilo, le camere sono tutte a disposizione, profumano di nuovo perché il posto aprirà soltanto tra alcuni giorni, che pacchia! Ci spiega che è tutto nuovo perché Vukovar durante la guerra del 1991 è stata completamente rasa al suolo, compresa casa sua, che poi è quella in cui dormiremo perché lui vive in un appartamento lì a fianco. L'esercito serbo/Jugoslavo ha conquistato questo lembo di Croazia e per un po' di anni ci abitava altra gente in casa sua, o almeno in quello che ne rimaneva. Lui, che all'epoca aveva 16 anni è scappato a Zara, tornò a Vukovar soltanto 7 anni dopo. Lì, con la sua famiglia, si è fatto forza ed ha provato a ricominciare, forse con i fondi che la Comunità Europea ha stanziato per la ricostruzione, ma non ne siamo certi e non osiamo chiedere.
Ci incontriamo in cortile sul dondolo poco dopo, io con il mio telefono a cercare un wifi, lui con il padre e la madre a pulire ciliegie, la signora mi sorride e mi invita a prenderne una, ad assaggiarle, nel frattempo continua a parlarmi in croato, le racconto che abbiamo appena messo le reti sulle nostre, in Italia, per proteggerle dai merli, lei continua a rispondermi in croato, ma se la ride e me ne offre ancora.Restiamo lì per un po' a parlarci senza capirci con un sole basso che bussa nelle retine, finisco al tavolo con loro a pulire ciliegie, forse per la marmellata o un succo, non ho capito bene, Boris se n'è andato e non abbiamo una lingua comune se non il lavoro delle mani.
Tornando alle parole di Boris, quella è la prima volta in cui davvero avverto la pesantezza del vissuto dietro i racconti, tutti i suoi discorsi sono caratterizzati da una divisione netta, cesura indelebile: "Before the war" e "after the war". Non è più mio nonno che parla della Seconda Guerra Mondiale, non è più quel mondo in bianco e nero, lontano, sono vicende di vent'anni fa con tutta la potenza dei loro colori, che molto spesso qui hanno avuto tutte le sfumature del rosso.Questa cesura ritorna nei discorsi di ogni persona che incontriamo come a segnare due epoche diverse, due stili di vita diversi, due coscienze di diverso peso.La sera, ad esempio, ceniamo in una delle 3 tavole calde che ci sono nel centro e, mentre la cameriera ci sorride a intervalli regolari, uno dei cuochi vuole parlarci. Ci chiede come vanno le cose in Italia e decanta le infinite bellezze di Brescia, unica città che ha visitato, dice che lì la vita è bella, rispondiamo che anche Vukovar è bellissima con un grandissimo potenziale turistico, se non altro, perché è tutto nuovo.Non è d'accordo, dice che è una città morta ci invita a sederci con lui lì fuori e scommettere che non passerà nemmeno una persona in un'ora. Ci racconta che come la maggior parte dei giovani di quella città, se potesse, lascerebbe tutto e se ne andrebbe anche lui. Before the war aveva una fattoria ma poi i Serbi gliel'hanno distrutta ed ha dovuto inventarsi qualcos'altro, si è sposato da poco, ha una bambina piccola e deve cucinare hamburger per vivere.Finiamo il vino, le Karlovachko e salutiamo.
Ci fermiamo un po' a parlare tra di noi di questa città, del suo potenziale, restiamo per un'ora seduti su un'aiuola nella via del centro, davanti al garage di Boris, ma in tutto quel tempo, nemmeno un'anima.
D'altra parte, come dicono qui, le anime hanno già lasciato Vukovar da un bel po'.
DIARIO BALCANICO di L. Cometti
GIORNO 0 – “Piccola premessa doverosa”
GIORNO 1 – “Cosa andate a fare a Belgrado?”
GIORNO 2 – “Gli scarafaggi muoiono sulla schiena”
GIORNO 3 – “Le anime di Vukovar”
GIORNO 4 – “La resa di Doboj”
GIORNO 5 – “Leila Thirtyfour”
GIORNO 6 – “Darko”
GIORNO 7 – “Dove la logica si arrende, la Bosnia comincia, Aisha”
GIORNO 8 – “Le bandiere”
GIORNO 9 – “Viaggio in Republica Srpska”
GIORNO 10 – “Decompressione”
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