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Unendo il sistema a partecipazione francese, il modello imprenditoriale tedesco e me

ECONOMIA E POLITICA - 19 08 2017 - Alessandro Cantoni

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Analizzando le proposte teoriche ed a tratti utopiche per sostituire la «società dei salari» con nuove forme di reddito ed occupazione, ho ritenuto opportuno approfondire le tesi di Weitzman e Meade, economisti di origine anglosassone.

Sento di dovere escludere la soluzione weitzmaniana. L’idea, infatti, che la remunerazione dei lavoratori dipendenti possa essere legata ad un qualsiasi indice di andamento dell’impresa (profitto ecc.) è estremamente rischiosa.

 

Semplificando, sebbene Weitzman sostenga che questa risoluzione apporti la piena occupazione, preferirei rimanere cauto.

Gli svantaggi riguarderebbero i lavoratori dipendenti; intanto a causa della perpetua instabilità della macroeconomia e della microeconomia, ovvero del bilancio aziendale; in secondo luogo poiché il reddito dei dipendenti, seguendo Weitzman, sarebbe inversamente proporzionale al numero degli occupati.

 

Un beneficio effettivo potrebbe manifestarsi qualora vi sia una reale crescita della domanda aggregata e della produzione, se è vero che il costo marginale del lavoro è inferiore al costo medio del lavoro. In tale senso, le imprese opererebbero seguendo una logica di espansione, stimolate alla ricerca di manodopera. Pertanto, simili ipotesi sembrerebbero acquisire un valore prettamente teorico più che pratico.

 

Maggiormente equilibrata è, invece, la teoria enunciata da Meade. Sulla base di questa mi sembra più opportuno sviluppare nuove tesi per l’economia e per il mondo delle imprese, nonché su un sistema salariale alternativo.

Il modello di partnership, inteso come partecipazione agli utili o azioni dell’impresa presenta uno schema virtuoso e meno rischioso rispetto alla partecipazione alla Weitzman.

 

Il mio prototipo prevede un’ibridazione, una fusione del sistema a partecipazione francese attuato da Charles De Gaulle e di quello federale tedesco, sebbene con molteplici varianti.

I lavoratori dipendenti prendono parte alla «proprietà delle imprese», purché non sussistano interferenze circa la gestione delle stesse. Ciascuno partecipa direttamente ai risultati dell’impresa ed ha, quindi, «parte nella proprietà di ciò che è prodotto in comune». Semplificando, avverrebbe una spartizione degli utili o delle azioni da parte dei lavoratori dipendenti. Seguendo tale logica, per De Gaulle «tutti hanno interesse a che le cose funzionino». Inoltre, la gestione dell’impresa non sarebbe affidata ai dipendenti, bensì l’imprenditore non vedrebbe in alcun modo scemare il proprio potere decisionale o il suo ruolo di gestore dei processi microeconomici.

 

Si tratterebbe, sostanzialmente, di un esemplare alternativo a quello della remunerazione salariale.

In aggiunta alla partecipazione agli utili, occorrerebbe stanziare un «dividendo sociale» minimo, garantito dallo Stato. Vediamo in che modo.

Attraverso incisivi sgravi fiscali al mondo delle imprese, favorendo l’obiettivo della piena occupazione e dell’estensione dei margini occupazionali, i quali sono dovuti a fattori di bilancio aziendale ed alla pressione fiscale. Solamente a quel punto sarebbe possibile diminuire la spesa pubblica per il welfare e per gli ammortizzatori sociali, mettendo a disposizione delle industrie i fondi necessari a garantire un «dividendo sociale» minimo.

Naturalmente, ciò sarebbe concretizzabile unicamente nel caso in cui si adottassero serie politiche governative, in un’ottica di piena occupazione.

 

Alla proposta fin qui annunciata, aggiungo la necessità di porre dei distinguo nella redistribuzione del reddito e della ricchezza. Il più efficace sarebbe uno strumento meritocratico, il quale premi la produttività, le competenze, le conoscenze e la contribuzione individuale all’incremento del profitto.

Per questo è indispensabile stabilire un indice di produttività che stabilisca in maniera trasparente chi ha partecipato maggiormente ai risultati dell’impresa, essendo responsabile di un migliore «andamento dell’opera collettiva da cui dipende il proprio destino».

 

Veniamo ora alle possibili critiche al modello enunciato. Mi si obietterà che tale logica apporta diseguaglianza. Ebbene, questo prototipo racchiude in sé l’esigenza di essere diseguale, poiché è corretto sostenere lo sforzo individuale.

La seconda obiezione potrebbe riguardare la mia imprudenza nel non aver considerato i possibili effetti che ne deriverebbero. Specificamente, si potrebbe pensare che la manodopera dei dipendenti verrebbe sfruttata eccessivamente per ragioni di surplus commerciale o al fine di ottenere un maggiore credito nella parte di proprietà degli utili «di ciò che è prodotto comune».

Alla prima si potrebbe rispondere che la produzione dipende dalla domanda aggregata e dalle richieste di mercato. Onde, in determinati fasi dell’economia, non è richiesta né è possibile incrementare eccessivamente la produzione. Secondariamente, si potrebbe stabilire un tetto massimo di partecipazione agli utili.

In questa prospettiva il lavoratore non sarebbe iperstimolato ad impadronirsi di una quota eccessiva di capitale collettivo, bensì verrebbe favorita la concorrenza e la competizione.

 

L’assetto partecipativo da me proposto segue l’esempio francese di profit-sharing e non quello tedesco di power-sharing - che esclude invece la partecipazione azionaria o gli utili -, ovvero di Mitbestimmung, di co-gestione.

Mi sento di escluderlo, poiché il ruolo dell’imprenditore ne uscirebbe alterato, svilito.

 

Tuttavia, è possibile pensare di affiancare alla figura imprenditoriale anche degli organi i quali si occupino delle strategie che potrebbero essere messe in campo per l’innovazione, lo sviluppo e, più in generale, per il corretto andamento dell’azienda. È quello che in Germania viene definito Aufsichtsrat, vale a dire Consiglio di sorveglianza. Nel sistema federale tedesco, pertanto, i lavoratori dipendenti hanno facoltà di eleggere metà dei rappresentanti del Consiglio di supervisione. Nella mia visione ciò non è realmente applicabile, in quanto spetterebbe al gestore ed al titolare del capitale aziendale la scelta dei tecnici competenti al suggerimento di nuove strategie imprenditoriali.

 

Alessandro Cantoni

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