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Europa: dal «paese dei sogni» a realtà possibile?

ECONOMIA E POLITICA - 09 01 2018 - Alessandro Cantoni

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Vorrei inaugurare il nuovo anno con una parola carica di valore e di speranza, e che pure «riempie l’aria, risuona dappertutto, vola su tutte le nostre labbra»: Europa.

 

In una presentazione del Corso di Storia della civiltà francese al Collège de France nel 1944-45, lo storico Lucien Febvre congeda il suo pubblico con la seguente domanda: «L’Europa è un concetto sorpassato – o una necessità vitale per il progresso del mondo? Si deve sognare l’Europa, o mettere da parte questa nozione SORPASSATA?»

 

Nel libro, molto interessante e più che mai attuale, l’autore si preoccupa di tracciare un quadro storico della nascita della civiltà europea. Nozione «sentita come cultura (…) prima che ci fosse un’Europa per diplomatici». Una realtà destinata a rimanere sogno; a fiorire, prima della fine dei conflitti mondiali, nella mente degli intellettuali. Un’idea rifugio, come la chiama Febvre. Per rispondere al suo interrogativo, direi che no, l’Europa non è un concetto sorpassato. Non è nemmeno mai nato né esistito nell’immaginario collettivo. Se non mi si crede, basterà chiedere ad un qualunque cittadino europeo che cosa richiama in lui l’Europa.

 

Con assoluta probabilità, parlerà di un non ben definito rapporto tra Stati che poco hanno in comune tra di essi. E già si tratterebbe di una risposta abbastanza buona ed esaudiente per un cittadino mediamente istruito. Il più delle volte, però, alla parola Europa se ne accostano altre, come burocrazia, vincolo, Germania…

È un concetto superato? No, semplicemente non è mai esistito. Esisterà? Difficilmente.

Che l’Europa sia destinata a rimanere un’idea rifugio è un fatto. Anzi, il fatto.

Rifugio. Ma rifugio di chi? Degli intellettuali, degli uomini e donne d’istituzione, forse. Non certo di chi ha preoccupazioni materiali, di chi nella quotidianità si occupa di ben altro rispetto a speculazioni teoriche di natura politica, storica e filosofica.

Ma allora, appunto, quand’è che può nascere un concetto di identità? Quando alla sua adesione partecipano non solamente gli illustri letterati, ma la società tutta. Si potrà parlare di Europa quando da espressione geopolitica diverrà presente nella coscienza civile collettiva.

 

Proprio perché, come sostiene Febvre, l’Europa «si deve sognare» non è mai realmente esistita. È il sentimento di pochi, dotti, intellettuali, per i quali è anche certamente sorpassata. Non per i suoi membri, cittadini, per cui quel momento deve ancora venire. Ma a chi spetta il compito di educare all’Europa? Certamente alle scuole, alle università, alle istituzioni, cominciando proprio dalla “Comunità dei politici”, che su tutto possono scindersi, meno che sul sentimento europeo. Essere homo europaeus non significa accettare senza vincoli trattati e condizioni imposti dalla burocrazia europea. Essere europei – ed europeisti – vuol dire piuttosto riconoscersi culturalmente, spiritualmente nell’Europa. Significa conoscere, amare questa meravigliosa realtà culturale, identitaria, nella quale viviamo sommersi, ma che troppo spesso denigriamo. Amare l’Europa per cambiarla, riconoscendo le realtà particolari che la compongono.

 

Sempre Febvre, nell’appendice del suo volume L’Europa, infatti, scrive: «C’è stato un Carlo V che si è spossato per realizzare l’unità europea; c’è stato Filippo II che ha spossato la Spagna per realizzare l’unità europea (…) ma il sogno di una repubblica europea (…) non fu che un sogno».

 

Oggi come allora mancava il sostrato delle nazioni. Esistevano sì la Francia e la Spagna, ma la Gran Bretagna era di là da venire; l’Italia e la Germania sarebbero sorte molto più tardi, entrambe al volgere della metà del secolo XIX.

Per giunta, l’unico Stato nazionale con un acceso sentimento patriottico era la Francia. O meglio, la borghesia francese. La Spagna era nata con la forza di un despota che aveva violato le autonomie locali, gettando sale sulle piaghe ancor sanguinanti del popolo; che aveva mirato alla creazione di un impero universale, dimenticandosi di creare solide basi nella penisola iberica. Da ciò derivò e viene ancora oggi, per molti, l’onta di essere spagnoli.

 

Allo stato attuale? Sono sorte come funghi le nazioni, ma non il sentimento nazionale; quel sentimento genuino di patriottismo, contrapposto al nazionalismo del secolo scorso. Ma tutto questo, lo ripeto, deve ancora crescere, scaturire dal basso. Non dall’alto. Non dalle élite, che pure hanno il non facile compito di diffondere il sentimento nazionale ed europeo alle fasce sociali più deboli, meno scolarizzate. In una parola, occorre che diventino concetti familiari alla società tutta. Sinceramente familiari.

Ho parlato di nazioni, e ho parlato di Europa. Parole che difficilmente intendiamo essere gemelle, conciliabili. Persino gli intellettuali avvertono qualche difficoltà, giacché il termine “nazioni” rievoca spesso tristi ricordi del passato.

 

Eppure, dicevo, senza il sostrato (delle nazioni) l’Europa non può aver ragion d’essere. Sarebbe come costruire castelli nel vuoto; edificare senza che vi sia una base solida. Nazione ed Europa – lo sapevano bene gli Illuministi – non entrano in contraddizione.

Come può un italiano, un francese, un tedesco, un romeno, sentirsi parte di un insieme così ampio (e nemmeno troppo) se, prima di tutto, fatica a riconoscersi nella sua comunità nazionale? Come è possibile che un italiano che non conosca la sua storia, che non sia fiero di appartenere al suo paese natale, possa avvertire l’esigenza di divenire un buon europeo? E qui si tratta di ragionare concretamente, senza dimenticare che il soggetto al quale ci rivolgiamo è l’intera comunità.

 

L’Europa resta un sogno, ma anche gli Stati sono una chimera. L’Europa è ancora tutta da costruire, ma anche molti Stati. Tra cui certamente l’Italia. E con essi i paesi slavi, l’Ungheria, la Polonia…

Bisogna però domare i processi di creazione delle identità nazionali, altrimenti si corre il rischio di cadere nella trappola del passato, confondendo patriottismo e nazionalismo. Devono rimanere separati. Ad interessarci è quel patriottismo genuino di cui ho parlato poc’anzi e che non teme di guardare oltre i propri confini, che non ha paura del “contagio” con realtà più ampie, universali. Il campanilismo, in questo senso, è pericoloso, non meno del protezionismo – inteso in senso ampio -.

E dunque, per rispondere anche all’ultima domanda di Febvre, l’Europa è una nozione da sorpassare.

Non è sorpassata, anzi, non è nemmeno stata raggiunta, così come per molti paesi europei non si è ancora pervenuti al primario sentimento nazionale.

 

Tuttavia, costruire l’Europa presso la società civile non può essere né la fine né il fine, poiché significherebbe chiudersi entro nuovi, sebbene più ampi, muri.

 

Essere italiani per essere europei per essere – ecco l’obiettivo – Cittadini e difensori dell’umanità. Sono italiano. Sono europeo. Sono Cittadino (del mondo).

 

Dal particolare all’universale, non viceversa. Sarebbe impossibile, giacché gli uomini si abituano più facilmente alle cose piccole e poi alle magne. Ché pochi sanno compiere il processo inverso e non ci è lecito alterare una condizione umana così radicata.

 

Alessandro Cantoni

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