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Un'esistenza donata

CULTURA E SPETTACOLO - 03 06 2018 - Don Battista Rinaldi

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C’è una domanda che si pongono in molti di fronte al rito dell’eucarestia domenicale: a che cosa serve? Sono soprattutto le giovani generazioni a interrogarsi con questa domanda; soprattutto adolescenti e giovani, ma anche le giovani coppie che di fronte alle rimostranze dei figli circa la partecipazione alla messa, non sanno che dire, come rispondere. La domanda nasconde la pretesa tipica della nostra cultura di verificare tutto al vaglio del rendimento pratico e utilitaristico; ma è anche il frutto di molti secoli di imposizioni di un precetto senza fare attenzione alle motivazioni, e senza badare alla maturazione delle singole persone. Senza nascondere che tante volte è il modo di celebrare nel suo insieme che fa disamorare.

 

Nella festa del Corpo e del Sangue di Cristo le letture proposte dalla liturgia – che non nascono certo con questo intento esplicativo – possono, in parte, aiutarci nell’intento.

 

Specialmente il racconto evangelico ci porta dentro “una grande sala, al piano superiore” per ascoltare le parole di Gesù – così come la prima tradizione della celebrazione dell’eucarestia le ha recepite, utilizzate e trasmesse anche a noi – il quale le pronuncia per riassumere tutta la sua vita e la sua morte: “Questo è il mio corpo…; questo è il mio sangue…”, cioè tutto me stesso. Nell’ultima sera della sua esistenza terrena, alla vigilia della sua morte sul Calvario, Gesù, che aveva vissuto giorno dopo giorno spezzando se stesso come pane e ‘versando’ la sua vita (che nella mentalità ebraica coincideva con il sangue) a beneficio di tutti, interpreta con quel gesto tutta la sua esistenza donata e lo consegna ai discepoli e alla chiesa di sempre perché lo continuino “in memoria di Lui”.

 

Ancora una volta non è solo l’invito a ripetere un rito. Piuttosto l’impegno ad assumere una logica di vita: se quel pane e quel vino dicono la persona stessa di Gesù nel suo consumarsi per l’uomo, per noi quel mangiare e bere a questa mensa significa che quel modo di vivere e di morire assunto da Gesù in obbedienza al Padre, diventa anche il nostro.

 

Tutta la carne e il sangue della nostra esistenza quotidiana diventa il luogo della presenza e dell’azione di Dio; in essa noi scegliamo di vivere come ha vissuto Gesù, cioè spendere noi stessi generosamente per amore di Dio e del prossimo.

 

Così la pratica religiosa ha anche una valenza esistenziale. Può essere una buona ragione per ripensare anche alla messa domenicale?

 

Don Battista Rinaldi

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