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La mia invettiva di Carnevale sul “brüsà la vègia“

CULTURA E SPETTACOLO - 08 03 2019 - Méngu

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/brüsà la vègia cùn i paiaröi

Gioventù, paparini e mammine del giorno d’oggi non mandatemi al rogo per l’invettiva che vi appiopperò. Se volete chiamatemi pure “l’ultimo dei moicani del tiranese” ma io devo difendere una tradizione che è stata dimenticata e che forse chi di dovere doveva tramandare e non l’ha fatto materialmente. E’ la tradizione del “brüsà la vègia cùn i paiaröi“. Che soddisfazione c’è vedere un mucchio di legna ardere ” a vègia“ sulla pira se ognuno di voi non ha appiccato il fuoco con il fascio di paiaröi? Significa bruciare la Vègia senza una personale partecipazione. Mah, per piacere! Vedere una persona con una latta di gasolio in mano e gettarne il liquido sulla legna per poi con uno straccio in fiamme dare fuoco è togliere il sapore di quella tradizione. La tradizione vuole che la catasta di legna la si incendi con i “paiaröi“ con la partecipazione di tanti giovani che con il loro fascio incendiato danno fuoco alla “vegia“ con grida e schiamazzi.

 

Orbene, leggete sotto la tradizione e mi auguro che la mia invettiva sia da monito a chi organizza la tradizione e recepita dai giovani e non più giovani che vi partecipano e sia tramandata quale bella e singolare tradizione tiranese.

 

e.m.

 

I paiaröi “erano i fuochi che si accendevano la sera di carnevale. Si raccoglievano nei campi i fasci d’ erba infestante, secca, dallo stelo lungo e fibroso (paiaröl).

L’erba preferita era l’assenzio (scéns); il fascio d’erba si legava con un filo di ferro e sotto il mazzo si infilava un lungo bastone (bachèt ), formando cosi una torcia. Il “paiaröl” si bruciava roteandolo lentamente tra grida e schiamazzi la sera di Carnevale, dando fuoco alla “ vègia”

 

 

I paiaröi : una tradizione tiranese dimenticata

Quanta aqua l’è pasàda sùta i punt ” da quel lontano 1956 quando io, per l’ultima volta sullo stradone del Campone, ho bruciato la “ Vègia cun i paiaröi “.

Alla sera, allora al Campone sulla statale 38, si poteva giocare al pallone. Erano poche le macchine che passavano. Quando l’ultima filovia passava silenziosa, con un colpo di clacson l’autista ci avvisava e “ nòtri ‘n gh’é faséva strada “ saltando ai bordi dello stradone mentre il pallone si infilava sotto quel gran camion con i bidoni di cemento e le corna che strisciavano sui fili elettrici.

 

Quella sera dei “ paiaröi” era un giorno di festa per noi ragazzi.

La vecchia da bruciare era pronta in contrada e attendeva il supplizio nella corte dei “Casàt” . L’avevamo costruita con gli stracci rubati .

Alle mamme rubavamo “ mandrùn e strasc de lana “ che erano i materiali più pregiati per “ ‘mbastì la végia “.

Personalmente una volta avevo sottratto “ l’urinàri smaltàa de l’àva “ per metterlo in testa alla “végia” della Contrada di S. Maria. Il mio amico Luciano aveva sottratto “’l cutìn de lana de l’àva che l’éra quasi nöf”.

La paglia ce la forniva volentieri il “vèciu Pédru Bernardèla ” . La contrada di S. Maria era la nostra contrada e lì doveva nascere la “végia pü strìa de tüti “. L’avevamo sognata d’inverno nelle stalle dove ci rifugiavamo al caldo delle bestie. Era fotografata nel nostro cervello e dovevamo solo crearla.

Doveva assomigliare alla nonna Rina, quella “ betònega “ che teneva bottega nella stalla per tutto l’inverno dicendo male di tutti e ad arte innescava discordie tra gli amori nascenti di ragazzi e ragazze .

 

Nella serata dei “ paiaröi “ le nostre madri ci facevano mettere i “ pagn früst “ poiché sapevano per certo che, dopo la festa, i maglioni e i pantaloni sarebbero stati pieni di bruciature e sarebbero diventati“mandrùn de trà via”.

Ogni contrada portava la sua vègia al Campone sul carrettino e i ragazzi la seguivano armati di “ paiaröi “ . L’assembramento di gente era grandioso , c’era persino il Prevosto per controllare, se per caso, non si bruciasse qualche fantoccio di prete.

Le “ végi “ erano poste in sequenza di” brüti stròleghi” e allineate al centro della statale. Il vociare dei ragazzi era incredibile, mentre i grandi si davano un gran da fare per preparare il supplizio.

 

Ecco! Qualcuno dava il segnale di inizio rito. “ Nòtri rais “ facevamo circolo intorno la nostra “ vègia “. Ognuno di noi teneva il proprio “paiaröl “con il bastone a raso terra finché “ ‘l regiur “ non l’incendiava , poi lo facevamo ruotare innanzi a noi tenendolo alla larga dalla testa, infine ci avvicinavamo alla “végia” con fare spiritato dandole fuoco.

Così facevano anche gli altri ragazzi delle contrade e in un baleno lo stradone del Campone si illuminava a giorno con il bagliore dei “ paiaröi e “dèli scarìzi “ mentre “ li vègi” lentamente prendevano fuoco .

 

Per ogni “ vègia “ che arsa e consunta si inclinava e cadeva a terra tra scintille e bagliori si alzava tra noi ragazzi un grido di gioia. Dopo un paio d’ore “ li vègi” erano arse; i grandi controllavano che i fuochi si spegnessero completamente e noi ragazzi continuavamo la festa nel sogno tra le calde coperte. La “ vegia “ ormai era “ scéndra” e le malefatte delle“ megére “ erano passate; si poteva iniziare un anno nuovo risanati.

 

Méngu

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