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Il Vèciu Tunàia e il castagno parlante

CULTURA E SPETTACOLO - 25 12 2021 - Méngu

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/Il Tunàia (foto di Giordano Perego)
Il Tunàia (foto di Giordano Perego)

Negli alberi di castagno vi è l’aura degli uomini. Le castagne grosse e rubiconde si chiamano “marùn“ e  sono il frutto delle radici degli uomini amabili. Quelle piccole e scarne sono i “cazzulòt” e sono il frutto delle radici degli uomini astiosi.

(Méngu)  

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Giovanni Rinaldi, detto amabilmente Tunània (1899-1984), l’ho visto per la prima volta risalire con passo lento e ondeggiante ma possente la contrada di S. Maria in Tirano. Era il mese di gennaio del ’48 ed era nevicato molto.  Nella via era passato lo “ slitùn “ ( spazzaneve di legno ) per rendere la via agevole al passo e molti erano sui loro usci con le pale in mano per sgombrare gli androni  dalla neve spinta ai bordi della strada dallo “slitùn” . Alcuni erano saliti sui tetti con il badile per l’alto strato di neve presi dal timore che il tetto cedesse per il peso. I fili delle linee elettriche, normalmente sottili come penne, erano diventati manicotti tondi come braccia per la neve ghiacciata e il selciato era coperto da neve pressata da sembrare una pista di pattinaggio. Tutti i rumori erano attutiti e il passo di quell’uomo che saliva la via e che a me a quel tempo sembrava anziano erano come colpi di tamburo. Portava un lungo pastrano marrone forse di origine militare che durante il suo incedere lento e claudicante copriva quasi gli scarponi. Sul capo aveva un cappello con falda larga che gli scuriva il viso e  con la ispida barba lo rendeva una figura poco raccomandabile. Ma non era così e quando da vicino si potevano scambiare due parole con lui, tutto il suo aspetto cambiava. Non era vecchio, forse sui cinquant’anni, e non era nemmeno una figura d’uomo da far paura. Il suo viso e le sue mani erano rugose per la misera vita che conduceva, ma la sua parlata era possente e sempre dialettale. I suoi occhi quando non era irato per lo schernire di ragazzi monelli erano dolci e nelle tasche aveva sempre delle castagne. Se gli eri simpatico le traeva dal lordo pastrano e te le dava con il cuore. 

 

Ebbene quel pomeriggio del mese di gennaio del ’48, con la nonna ero sul portone di casa. Lei era con il badile in mano che sgombrava la soglia del portone della neve quando giunse il Tunàia. La nonna già lo conosceva per via di alcuni lavoretti che gli dava da fare, come spazzare la latrina, spaccare la legna da ardere, vangare l’orto, pulire la stalla. Era l’uomo adatto poiché con lui le parole erano misurate, bastava fargli qualche cenno, dargli qualche attrezzo e  lui, con la sua calma, iniziava il lavoro e lo terminava a regola d’arte. Gran parte dei contradaioli della Tirano vecchia lo conoscevano e gli facevano fare lavori che per il tempo o per la fatica non volevano e potevano fare. La sua paga era poca cosa, forse una minestra, pochi soldi e qualche vestito vecchio. Tante di quelle cose date non valevano il suo lavoro, ma lui si accontentava di quello che gli davano e certo non compensavano molte volte la sua fatica. Giunto presso il portone di casa, quando vide mia nonna con il badile gli si avvicinò silenzioso, tolse le mani dalle tasche e con gentilezza tolse dalle mani di mia nonna il badile, poi disse: “ Vèrginia sbadili mì “ ( faccio io )  . Io mi feci da parte e lui, con mosse da uomo che il badile lo sapeva maneggiare come maneggiava magistralmente il piccone, l’ascia, la mazza, con alcune badilate sgombrò l’androne e con la punta spaccò anche il  ghiaccio. La nonna era nel frattempo andata in cucina, e io, sempre a lato dell’androne, guardavo la possente figura di quell’uomo. Lui mi guardò con insistenza e dopo un poco mi disse: “ maranèl de ‘n bòcia tée séret miga bùn ti de giutà l’ava a fa via la néf ? “ ( brighella d’un ragazzo non eri forse capace di aiutare tua nonna a spalare la neve ?)   Non dissi nulla e lo guardai come si guarda un papà che si sfila la cintura dei pantaloni per punirti, poi lui mi fece un sorriso simile a quello d’una capra per via della sua folta barbetta e dei denti giallastri  e sgangherati. Svanì ogni mio timore quando trasse della tasca due castagne, grosse e lucenti, quand’ ecco giungere mia nonna e dire:  “  Giuàn vèn ‘n cusìna che tòo preparàa ‘l cafè “ ( Giovanni vieni in cucina che ti ho preparato il caffè) . Tutti e tre entrammo al calduccio in cucina. Prima di sedersi il Tunàia disse: “ Vérginia gh’ét amò  bisùgn de spacà sü legna ? ( Verginia hai ancora bisogno di spaccar legna ? )  E la nonna “ Làsa bùi la lègna adès e bev ‘l cafè che ‘l ta scòlda giù “(  Lascia stare la legna  ora bevi il caffè che ti riscalda ) . Quella sera il Tunàia se ne andò tardi, poiché l’uomo aveva voglia di parlare e di stare in compagnia. Si fermò a cena e per cena lui e la nonna cucinarono un chisciöl  che ancora ricordo per la bontà  e con il chisciöl il Tunàia si bevve due calici di vino che lo resero loquace.

 

Tra il calduccio del focolare il Tunaia mi raccontò questa storia che io credo sia vera poiché durante il racconto vedevo quasi la scena nei suoi occhi e le sue mani, a volte, sembrava che parlassero.  Mi disse: “ maranèl de ‘n bòcia, ta cünterò sü chèl che ‘l me sucedüü l’an pasàa su ilò ‘n de li sèlvi tacàa àla caà dei Gatèi, la stòria la ta parerà fursi mìga véra ma chèl che ta cünteròo, quandu ta sarée vècc àa ti, tal vederèe cun i töö öcc !” ( brighella , ti racconterò quello che mi è successo  l’anno scorso presso le selve accanto alla casa dei Gatèi , la storia non ti sembrerà vera ma quello che ti racconterò , quando tu sarai vecchio , lo verificherei con i tuoi occhi”.  Mi guardò intensamente negli occhi e mi disse: Sculta bée ! ( ascolta bene ) . Il Tunàia mi parlò in dialetto e io lo racconto a voi in un mio italiano chiamato del “ làres “ ( dei  boscaioli ).

 

”Molti sapevano della mia arte di tagliare piante, specie quelle di castagno e di sradicare il ceppo con il badile e il piccone. Sapevano anche che dopo aver tagliato l’albero, avrei rimosso il ceppo con i cunei, poi lo avrei fatto a pezzi e ridotto a legna da ardere. Così un giorno mi fermò per strada Valerio, un contadino di Via Trivigno che possedeva una selva poco sotto la Cà dei Gatei e mi disse: “ Giovanni, ricordi che dalla mia selva pochi anni fa raccoglievo quasi 80 kg di castagne grosse, che “ chilò a Tiràn i la ciàma marùn  e  ades tiri sü nùma cazzulòt?”. L’altro ieri sono stato nella selva e ho visto che un castagno che molti ritenevano secolare e che secondo me ha visto i tempi dell’Apparizione della Beata Vergine di Tirano, nell’arco di cinque anni si è seccato e i suoi grossi rami sono pericolosi “ Tèe mél taieresèt miga fò, strepàndu àa il sciüch e pòo fàmel sü a tòch de brùsa ‘n cüsina ? “( me lo taglieresti , strappando anche il ceppo  e spaccarlo in modo da bruciare  nella stufa economica ? ) . Il Tunaia ad una domanda del genere mai si rifiutava e dìsse “ dàm ‘l temp e pòo tèl tài fò, tàa  strèpi àa ‘l sciüch e ‘l  fòo sü a tòch de brüsa “ ( dammi il tempo e poi te lo taglio, ti tolgo il ceppo e te lo faccio a pezzi per bruciare )   Dopo un paio di mesi ecco il  Tunàia lavorare di sega, accetta, badile e piccone nella selva. Il castagno nella sua circonferenza misurava più di tre metri e il suo interno era ormai corroso da insetti e in parte marcio, però alla base della pianta, presso il ceppo vari polloni erano cresciuti sul tronco e, in verità, il castagno non sembrava morto del tutto.

 

Dopo una settimana il Tunàia aveva tagliato la pianta a circa due metri dal suolo, messo i grossi rami tagliati ben in ordine nella selva, pronti per poi essere essiccati e spurgati dal tannino e segati alla dimensione giusta per essere bruciati nella cucina economica di Valerio. Ora c’era da tagliare parte del tronco con alcune parti ancora verdi e il ceppo da togliere con le sue radici. Il Tunàia ci impiegò due giorni a scavare intorno al ceppo e a mettere a nudo le grosse radici che possenti si ramificavano nella selva. Quando fu il tempo di iniziare a tagliare le radici del vecchio castagno, ecco che si verificò un evento incredibile. Il Tunàia mi raccontò per filo e per segno ciò che avvenne.  Così continuò  il suo racconto.”  “ brighèla di un bòcia “ , devi sapere che io alla sera dopo il lavoro nelle selve di castagno molte volte non scendevo in paese per dormire. Poco distante da quel castano c’era un “baitello” ( casupola per le pecore )   e così dopo il lavoro  e aver mangiato un boccone mi sdraiavo su quello che doveva essere un tempo  il ricovero delle pecore e riposavo fino all’alba del giorno dopo. Era una notte di luna piena, la luna illuminava poco sopra quella selva la Cà dei Gatèi , quella casa sembrava un ospizio dei fantasmi. Le ombre dei castagni sembravano lunghe braccia dei morti dannati che dall’Inferno chiedevano misericordia e le loro braccia si proiettavano sulle pareti bianche di quella casa. La luna illuminava in modo strano anche il castagno che in parte avevo tagliato e le sue radici ormai quasi tutte visibili sembravano muoversi come i tentacoli di un polipo. Quand’ecco che da quel ceppo apparve avvolto, come in una tenue nebbiolina, una figura di donna in pianto. Era giovane e bella. L’avvolgeva un manto azzurro e tra le mani aveva un libro aperto.

 

La signora si guardò intorno, mi vide e mi volse il suo sguardo addolorato e disse : “ perché mi vuoi uccidere? Su questo libro ho scritto i nomi di persone vissute qui in Tirano e che hanno tanto amato queste selve e mangiato per sfamarsi le loro castagne. Questo castagno ha in ogni radice l’aurea di queste persone. Ora li ricorderò una ad una con il loro  scutùm ( soprannomi )  con amore e riconoscenza. I loro “scutùm”  li leggerò uno alla volta con fierezza poiché sono le radici di questo ceppo che tu vuoi sradicare. A sentir dire queste parole il Tunàia fece sette volte il segno di croce e dopo l’ottavo si vide nella notte scura la luna danzare, mentre una sinfonia celestiale venuta dall’alto accordava la voce della Signora che declamava uno alla volta gli “ scutùm “, mentre il Tunàia ad ogni “scutùm” proferito dalla Signora, diritto e possente come un alabardiere con il suo grosso scarpone del piede destro batteva un colpo su una pietra in segno di onore e rispetto dicendo: Aée ! ( va bene! )   

 

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Bertùn,Bìa,Bòrgna,Bott,Braschée,Bràta,Brigùn,Brùngiu,Brüsaghìn,Bucastòrta,Bucc,Bunàt,Bùna,

Bunìna,Burelée,Burgnèta,Burtulìn,Busch,Butìcc,Cabasìn,Càcu,Cadadìu,Campèl,Cantüscìn,Caram-èla,Carìn,Carina,Carlìn,Caròta,Carutìna,Casàtt,Cascìn,Castragalìni,Castrìful,Cauagnìn,Cavìcc,

Cèca,Cèch,Cècu,Cèch,Chegarìs,Chèga,Chègula,Chetùn,Chin,China,Ciavèta,Ciciavìn,Cìciu,Cìna,Ciòo,Ciudèl,Ciüfìn,Clemént,Cocc,Còcia,Contìna,Corf,Crapéna,Crasc,Cristòfan,Crivilìn,Crùsti,Cocü

Cunìcc,Cupabàu,Curée,Cusc,Dàdo,Dìgo,Dindània,Dòlfo,Fabèi,Fantàsma,Farìa,Farinèl,Fariùn,

Fasulìn,Fatüt,Fazinètt,Fràu,Frìgul,Fuìn,Fümìsta,Famlunga,Funsìna,Furér,Furmagìn,Füstèla,GagèttGagìn,Galèt,Gambàl,Gambìn,GattGelàa,Gatèi,Gavèi,Gavelàsc,Gendàrmi,Gerlàtt,Gèta,Ghìro, Ghìsmu,Ghismi,Gigiöla,Gingìva,Giòcali,Giòna,Giròlum,Giuanèla,Giüba,Giüìta,Giümèl,Gnatìn,

Gnàula,Gnèfi,Goos,Grin,Grusìn,Guàita,Làzzea,Luzzàt,Màchina,Maiamèrdi,Maiamùschi,Manàl,Meneghìn,Manìna,Manz,Manzèt,Manzùn,Marcànt,Marcora,Marcòcu,Marèl,Margiöla,Mariàa,Mariàna,

Martìncürt,Maschèrpa,Matüscìn,Maùsi,Maüta,Mégi,Mèla,Menacùa,Ménega,Méngu,Menòti, Merdighéra,Merlée,Mezzacülàta,Michelìn,Mìchi,Mìgui,Minèstra,Miningàina,Minöl,Miniu,Mocéri,

Mòfa,Mògnu,Mulisìna,Muneghìn,Muschìna,Müt,Mütìn,Négus,Nèn,Nèti,Nìguli,Nin,Ninèl,Pàciu,

Padèla,Palèt,Pals,Pantegàna,Pap,Papìn,Pàsti,Patalò,Patìn,Pàtu,Patùn,Pèchen,Peciatìna,Peciùn

Pedràscia,Pedrunégru,Pelìscia,Penàgia,Pèrsech,Pètdel’orba,Pich,Piciarùs,Pìciuli,Picùn,Pìi,Pilàa,

Pilòta,Pìna,Pinchèt,Pinciaröl,Pipèta,Pirlèt,Pirlìn,Pisciabàli,Pisciaderée,Pisciàtul,Piscìn,Piscìna,

Pisciùn,Pulveràtt,Pìstul,Pitìla,Pìto,Pitùn,Pìtu,Pìva,Plòo,Pòrta,Priàla,Prùtu,Pùa,Pués,Pulée,Pupatìn

   Purscelée,Pü,Quàrti,Quàtru,Ràita,Ral,Ralìn,Rampìn,Rangulìn,Ràpul,Ratìn,Rauanèl,Recòcc,

   Rìsciul,Rùgna,RusRus,Ciciòt,Sài,Saiòt, Sanàda,Santapàs,Saràca,Saràch,Scartàsc,Schenafrègia,Schìsc,Schìtt,Scìa,Scibìch,Sciguli,

Scigulìna,Scìgul,Scimunèta,Sciöla,Sciòra,Sciòta,Scirèl,Selvàdech,Sèlva,Siàni,Sìndech,Spandùn,

Spantéga,Sparàgn,Spinòsa,Stabèl,Stée,Stèli,Stifinìn,Stupìn,Sùi,Tabàcu,Tampalìn,Taragnìn,Tèl,

   Terléndu,Tìti,Tizz,Tom,Tònga,Tràpula,Trentabüsèchi,Trùmali,Tùciu,Tugn,Tugnìn, Tugni,Tunàia,Tunèl,Tusìna,Umbrelée,Uregìna,.Urscèi,Valée,Valéni,Vèrsa,Zan,Zèp,Zìtera,Zuchèt.

 

  La sinfonia durò quasi mezz’ ora, mentre la luna ballava nel cielo scuro e sembrava giocasse tra i rami nella selva di castagno di Valerio. Quando ebbe termine la lettura, la signora disse :” Ecco in quelle radici che tu vuoi tagliare c’è l’aurea sacra di questi “scutùm” , ora tu le vuoi tagliare ?”  A questo punto il Tunàia si gettò prono sulla nuda terra e disse “ Gnàa se ‘l diaul  ‘l ma trida a tòch cun ‘l sugarèl ! “ ( Nemmeno se il diavolo mi fa a pezzi con l’accetta, ) poi pianse come un vitello a cui hanno ucciso  la mamma,  battendosi furiosamente il capo. La signora continuò dicendo con voce di pianto: “  Giovanni, verrà anche il giorno in cui nel tuo paese queste selve saranno abbandonate al loro destino. Molti alberi saranno tagliati, altri si confonderanno con la boscaglia e  i loro ceppi saranno estirpati per dar luogo ad altre  piante da frutto. I vecchi castagni saranno tagliati per far posto a strade e a case e nelle selve  sorgeranno grandiosi piloni elettrici.  Molti figli e nipoti dei proprietari di selve preferiranno appollaiarsi su sgabelli in locali fumosi e far mangiare ai loro figli i “ braschée”( caldarroste)  di castagne provenienti da altre nazioni. Quel tempo a causa di valanghe di parole e di promesse vuote sarà chiamato” il tempo della post- verità”  e molti saranno quelli che amministreranno la cosa pubblica con incompetenza e per il loro interesse personale. Gli “scutùm” dei tiranesi saranno via via dimenticati, perfino ci sarà gente che vorrà oscurarli per una “ mal celata “ vergogna. Terribile delitto quello di nascondere o rinnegare la memoria delle persone del proprio paese.  Questo castagno è la loro memoria, lascialo vivere! Quando verranno i tempi di cui ti ho ricordato, il castagno che ora tu vuoi tagliare sarà grandioso, magnifico e darà ottimi “ marùn “ .”

 

Poi la Signora con un botto d’una bomba entrò nel ceppo e scomparve alla vista. Il Tunàia si riebbe, si alzò in piedi  e scappò gridando sino a Tirano.  Il giorno dopo corse da Valerio e gli disse: tòo taiàa i ram de chèl castàn , ma la pianta l’è mìga morta e tàla  strepi miga . Chèl sciüch ‘l gà li rais  dei nòs por vècc , làsal stà che tal cureròo mì parchè il diventìs amò ‘n bel arbùl “ ( Ti ho tagliato i rami  di quel castagno, ma la pianta non è morta e non te la taglio. Quel ceppo ha in sé le radici dei nostri poveri vecchi, lascialo vivere e te lo accudirò perché diventi un bel castagno ) . Giovanni disse queste parole con vigore e grande saggezza e Valerio stupito acconsentì poiché, in cuor suo ebbe timore. Dopo due giorni Giovanni ricoprì di terra concimata le radici di quel castagno e dopo due anni di cura alcuni rami incominciarono a dar frutti.

 

   Ecco, ora noi viviamo quei tempi profetizzati della Signora, viviamo il tempo della post- verità, dove molte persone si trasformano in camaleonti secondo loro  esigenze, e molte di queste persone che emanano al vento turbini di parole vuote di significato e di promesse non conoscono nemmeno il  “ scutùm “ dei loro cari e della famiglia. Chissa ! Forse il Tunàia, l’Uomo che ha rifiutato di recidere le radici di quel castagno pieno di storia ha salvato i nostri “scutùm”. Dio l’abbia in Gloria e a noi spetta il suo ricordo.

 

Questo scritto è dedicato per un particolare  ringraziamento al “cavalier dei braschée“, signor Botti Mario, che, da anni, si dedica a cucinare in modo “ divino “i braschée” D.O.C.di Tirano ( Associazione “Mato Grosso") dedicandosi fra l’altro alla cura di alcuni castagneti di Tirano.   

La ballata del véciu Tunàia

Se a Tirano giammai un uomo nacque

che povero ma Signor chiamar conviene

questo fu il buon Tunàia che a Dio piacque

far di lui un uomo forte e dabbene.

 

Oilarì,oliarò,ailarà

car vèciu mai ‘n tà  desmentegherà 

 

Il gran vecchio mai la rugosa mano stese,

sol lavoro chiedeva nelle umili dimore,

sol un tozzo di pane senza altre pretese

in cambio della sua fatica e del suo cuore.

 

Oilarà, oliarì, oilarò

i töö öcc  bùn e lüsént  cuma ‘n falò  

 

Dai suoi scarponi chiodati uscivano scintille

trainando lento sul selciato il misero carrettino.

Le gente nel veder sprizzar le tenue faville

diceva: arriva il Tunàia dal cuor di bambino.

 

Oilarà, oliarò, oilarì

Sü ‘sta téra  te fàcc ‘n  grant patì   

 

Con passo traballante al calar del sole

saliva sol soletto al suo misero ricovero

tra le selve di castagno senza dir parole

con occhi teneri come quelli del povero.

.

Oilarì, oliarò, oilarà

del Signur te  fàcc la vuluntà       

 

Non parlava tra sé ma con il Signore

quando lanciava le sue parole al vento,

lui  lodava il Creatore con forza e con amore 

per la sua povera vita piena di sentimento.

 

Oilarà, oliarì, oilarò

e ‘l paradìs adès l’é tò  

 

Ti abbiamo amato buono e umile  uomo

che povero eri come Cristo in croce ,

eppur davi una bella castagna per dono

a chi ti sorrideva e ascoltava la tua voce .

 

Oilarà, oliarò, oilarì

adés giüta nòtri  a fa sentì 

 

Noi ti ricordiamo come un uomo  che vale .

La tua dolce e rassegnata gran pazienza

ci ha insegnato che se al mondo v’è il male

sarà sconfitto dalla bontà e dalla sofferenza.

 

Oilarà, oliarì, oilarà

tücc i dì la tua buntà

 

 

Ezio (Méngu)

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