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9^ parte - Le calamità del 1987 in Valtellina

CULTURA E SPETTACOLO - 05 05 2017 - Mèngu

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/ponte adda, foro boario, alluvione 1987

Questo scritto, diviso in diverse puntate, è dedicato alle 53 vittime delle calamità che si abbatterono nell’estate dell’87 in Valtellina e ai giovani, perché non dimentichino il “male antico” della valle.

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Parte 1Parte 2Parte 3Parte 4Parte 5Parte 6Parte 7, Parte 8

 

Poco sopra le frane cadute dalla valle delle Presure e di Pola, di Vendrello e della val Fine avevano in parte interrotto il corso dell’Adda e avevano formato una distesa d’acqua allagando e danneggiando molte case di  Morignone , S. Antonio Morignone e Poz .

Da Foliano e dalle Presure erano scese valanghe di acqua e fango che avevano invaso la piana e Morignone.

Anche il Frodolfo in Valfurva era diventato impetuoso. Aveva scavato il fondovalle e a S.Antonio Valfurva aveva allagato parte del paese, poi era precipitato a Bormio trascinando grandi quantità di detriti.

 

In questo grande disastro per la valle, si era fatto l’impossibile per soccorrere la popolazione.

La Protezione Civile e i soccorsi si erano mossi con celerità encomiabile su tutta la valle: una flotta di 40 elicotteri e più di mille uomini dell’esercito erano accorsi in aiuto. I rumori delle pale degli elicotteri facevano rimbombare le montagne, vibrare le case.

 

In questo contesto drammatico la magnifica terra di Bormio era isolata.

Occorreva quindi intervenire urgentemente.

 

Solo gli elicotteri potevano portare i primi soccorsi, ma poi occorreva attivarsi per ricostruire la strada interrotta o almeno avere, in primo momento, una pista di emergenza.

A Bormio molti turisti erano rimasti bloccati negli alberghi; occorreva far qualche cosa per farli tornare alle loro case.

 

Una simile esperienza era già stata fatta.

Era già successo che sopra l’abitato di Le Prese una frana avesse interrotto la statale 38 per alcune centinaia di metri e anche allora Bormio era rimasta isolata dal resto della valle.

Era intervenuta l’ANAS la quale aveva stimato che per ripristinare il collegamento ci sarebbero volute alcune settimane. Quelli di Bormio non vollero aspettare. Intervennero con i loro mezzi e in poco meno di una settimana già si poteva transitare su un nuovo tratto di strada asfaltata a ridosso dell’Adda.

 

Così in quell’anno fu salvato il turismo.

Quelli della Magnifica Terra, avendo buona memoria, anche in questo caso decisero di intervenire prontamente con uomini e mezzi a Morignone e a S. Antonio Morignone, cercando in primo luogo di dare aiuto alla popolazione e poi fare il possibile per ripristinare il collegamento della statale con Bormio.

 

Intanto però in tutta la valle ogni comune faceva i conti con la sua realtà e nessuno stette con le mani in mano in quei giorni che seguirono l’alluvione.

Si pensò anche alle dighe e al loro controllo strutturale.

 

Cosa sarebbe successo se i nove milioni di metri cubi d’acqua trattenuti nella diga di Alpe Gera, se i 12 milioni di metri cubi trattenuti dalle dighe della Sondel e se i quasi sette milioni di metri cubi invasati delle dighe della AEM di Milano si fossero riversati a valle ? Le dighe che nell’immagine collettiva delle persone  avevano sempre rappresentato la catastrofe, in questo caso, avevano evitato ulteriori danni ; avevano fatto da scudo, da difesa alla valle mitigando l’ondata di piena.

La portata dell’Adda, nel suo giorno d’ira era stata di ben  1850 metri cubi al secondo nel suo sbocco nel lago di Como.

 

Lecco e Como avevano le piazze allagate , ma le dighe che erano diventate piene al pari d’un uovo avevano evitato che il livello del lago raggiungesse massimi storici con danni incalcolabili.

La valle intanto si leccava le ferite; occorreva fare subito l’inventario dei danni.

 

Ogni comune fece minuziose ispezioni in ogni suo territorio, in ogni sua valle, per quantificare i danni subiti.

Da anni si parlava dell’aspetto idrogeologico del territorio, degli interventi necessari, anzi indispensabili per evitare frane, smottamenti. Ora si toccava con mano ciò che per anni si era discusso e poco fatto.

 

Si era visto che in alcuni casi i danni erano stati causati dalla mancata manutenzione degli alvei dei torrenti, dei fiumi, in altri casi i lavori erano andati a rilento a causa delle competenze non ben definite. Si era ben capito quale fosse la conseguenza dell’ assenza sempre più marcata dell’uomo sulla montagna e l’importanza del controllo sistematico delle opere di contenimento e di convogliamento delle acque.

 

Tutto vero ! L’uomo ha le sue colpe ma la nostra valle presenta un aspetto particolare e un “antico male “ che la perseguita. E’ zona di montagna i cui monti sono alti, le valli sono strette e il fondo valle è generalmente eroso da fiumi e torrenti. Le frane e gli smottamenti sono dunque parte inevitabile del territorio. La nostra catena alpina in tempi antichi era ricoperta da grandiosi ghiacciai; le nostri valli erano percorse da imponenti masse di ghiaccio che avanzando lentamente scavavano il fondo valle. Quei ghiacciai erodevano i fianchi delle montagne rendendole ripide, inaccessibili, poi lentamente, con il mutamento climatico della terra, essi si sono ritirati lasciando grandi depositi di materiale morenico poco stabile sui fianchi dei monti. Queste enormi quantità di materiale morenico, scomparendo il ghiacciaio che con il suo volume ne garantiva una certa stabilità, lentamente nei secoli sono scivolate a valle.

 

Questo fenomeno di assestamento è continuato per millenni e ancora esiste. Esso è stato avvertito dalla popolazione solo in tempi relativamente recenti poiché allora le nostre valli erano poco abitate. Le nostre valli, impercettibilmente, giorno dopo giorno ricercano continuamente la loro stabilità, il loro equilibrio naturale .

 

Forse si può dire che poco o nulla è stabilizzato e spesse volte rimane molto difficile il giudizio del territorio che ci circonda. L’uomo può far la sua parte ma non potrà mai eliminare questo fenomeno della natura. Solo la vigile attenzione del territorio e, in caso di segni premonitori di pericolo, il pronto abbandono della zona salva almeno le vite umane.

 

Val la pena di ricordare cosa capitò all’ antico borgo di Piuro.

In quel sabato del 25 agosto del 1618  era incominciato a piovere e poi piovve fino a giovedì 30; il giorno dopo tornò il sereno, poi di notte iniziarono a susseguirsi forti temporali. Piovve di nuovo fino al lunedì 3 settembre, poi tornò di nuovo il sereno.

 

Quei giorni di pioggia intensa avevano inferto al terreno il colpo d’ariete che avrebbe causato la grande frana dal monte Conto.

Gli abitanti già alcuni anni prima avevano visto le grandi crepe che si erano formate sul monte. Erano franate alcune vigne, segno che quella parte della montagna già si stava muovendo. Ecco i segni premonitori! Ecco quei segni che evidenziano che qualcosa sta per succedere!

 

Ma non basta vedere e tacere, occorre informare la gente perché possa fuggire dal pericolo. Ma allora per il paese di Piuro non fu così.

Nel pomeriggio di martedì 4 settembre il monte Conto incominciò a muoversi e le crepe, già notate da alcuni contadini di Uschione , stavano aumentando di grandezza.

 

Alcuni  contadini di Roncaglia che sul monte raccoglievano il fieno, sentirono vibrare la terra sotto i loro piedi; avvertirono i puiraschi che qualche cosa stava per succedere sul monte e che forse era meglio abbandonare il loro ricco paese per evitare la perdita di vite umane.

Innanzi a questi fenomeni così imponenti della natura  poco o nulla resta da fare .

 

Cosa si poteva fare per evitare una catastrofe così imponente per il paese ? Solo pregare che ciò non avvenisse e evacuare immediatamente la zona. Cattolici e Protestanti fecero solo la prima parte: si unirono in preghiera nelle loro chiese. La Divina Provvidenza in quella sera di luna piena non intervenne ; la grazia non fu concessa agli abitanti di Piuro e di Scilano.

 

L’immensa frana si abbatté di colpo seppellendo i due paesi. Morirono 930 persone e splendidi edifici furono distrutti. L’onda d’urto travolse il campanile della chiesa di S. Maria sbalzandolo dalla parte opposta della sponda.

 

La grande frana era precipitata in quella valle stretta e era risalita lungo i fianchi della montagna di fronte, poi con violenza si era di nuovo rovesciata chiudendo il corso del fiume Mera. In poco più di due ore, il fiume intrappolato aveva formato un invaso che diede grande allarme in Chiavenna.

 

Temevano che il paese potesse essere sommerso dalla piena dovuta alla rottura della diga formata dalla frana.

Fortunatamente non fu così perché il Mera riuscì con la furia della sua acqua ad erodere gradualmente lo sbarramento prima che l’invaso raggiungesse proporzioni grandiose. Il fiume Mera scaricò le sue acque senza gran danno per il borgo di Chiavenna , però la frana lasciò per molto tempo un lago lungo parecchie centinaia di metri.

 

Qui la mano dell’uomo non era in discussione: la natura aveva fatto il suo corso, la montagna aveva raggiunto un suo equilibrio naturale.

Quando si innescano questi immensi fenomeni franosi il rimedio è solo quello di ascoltare coloro i quali conoscono la montagna palmo a palmo.

 

Nel 1600 erano i contadini, i boscaioli, quelli che lavoravano la terra, i più idonei per vigilare.

Ora la moderna tecnologia permette un monitoraggio continuo dei fenomeni che succedono sul territorio con rilevatori di movimento e dei registratori di rumore.

 

(Continua... )

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