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NUOVA RUBRICA, I “Filò” della Rina

CULTURA E SPETTACOLO - 11 03 2014 -

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“Filò” . Questo termine deriva, con buona probabilità, da filare . Filare era Il lavoro che le donne contadine facevano, in particolare d’inverno, nelle stalle. Ma fare” filò “ significava anche raccontare, nelle stalle, storie, leggende, discutere del più e del meno delle cose successe in contrada, chiacchierare, magari anche criticare, malignare sui fatti e persone. Insomma era un poco come il “ telegiornale “ della sera dei nostri tempi moderni. Perché tutto questo, normalmente si faceva nelle stalle ? Semplicemente per accomunarsi e passare il tempo insieme, per scaldarsi al caldo umido del fiato degli animali. Personalmente alla fine degli anni ’40 e ai primi dei ’50 ho vissuto, in via S. Maria, nella stalla della “ Rina “, un indimenticabile periodo della mia vita. La sera, terminata la frugale cena, quella stalla, per alcuni di noi ragazzi di S. Maria, era il nostro ritrovo. In quella stalla, con grosso portone in legno e con una grossa tenda, si entrava felici con un saluto di “ Ciàu nòna Rina , sòo scià “ ( Ciao nonna Rina, sono arrivato ) . Lei ci accoglieva con un sorriso: ci aspettava. Nella stalla da un lato v’era una mucca e in un cantuccio di pochi metri quadri v’era un angolo riservato alle persone e ai gatti. Sul pavimento riservato ai “ filò “ v’era paglia, ai lati due panchine. La parte centrale era quasi sempre occupata dalla nonna Rina e dalle altre anziane donne che normalmente filavano o tessevano calzettoni o maglie di grossa lana. Non mancavano anche i “ vècc “ ( vecchi ) e tra questi non mancava il “ Pédru “, memoria storica della contrada di S. Maria. A noi bambini la Rina e il Pédru raccontavano storie e fiabe che mai dimenticherò. Li raccontavano in dialetto, con la loro “ voce narrante “ che ancora mi risuona nelle orecchie e che mi dona un’emozione , ancora oggi, indicibile. Mi si perdoni ora il mio desiderio di raccontare alcune di queste storie per coloro che avranno voglia e la pazienza di leggerle. Certo, non potrò mai raccontarle come le raccontavano loro. Non potrò mai fare rivivere quei sentimenti cari e profondi , quelle emozioni che le nostre nonne e i nostri nonni sapevano inculcare nei nostri cuori. Ma se riuscirò a far rivivere alcuni sentimenti e ricordi di allora, anche a un solo lettore, sarà per me un “ desiderio “ esaudito, appagato, della mia gioventù, ora che anch’io sono anziano. Per coloro che lo vorranno, oltre alla lettura in italiano, propongo la lettura anche in dialetto. La rubrica sarà quindicinale.

 Ezio maifrè

 Per leggere in dialetto tiranese : clicca qui.

La bontà di Silvia

Inverno 1950. Nella contrada di S. Maria tutto sembrava triste e immobile. Le montagne, bianchi giganti infreddoliti, apparivano come cupi macigni incombenti sulla valle intirizzita e coperta di neve. Il fumo, che lentamente usciva dai camini, si spandeva nella valle coprendo le case con un leggero e ininterrotto velo grigio. Un freddo intenso e pungente avvolgeva ogni cosa. La natura, che d’estate era stata bella e ricca di colori, ora dava un sentimento di pena e disagio. In quelle fredde sere d’inverno, in contrada S. Maria, calava un desolante silenzio, una quiete non voluta, non desiderata. ogni famiglia sentiva il desiderio di stare insieme, di parlare delle piccole cose di ogni giorno, di consolarsi a vicenda. Così, la sera, le stalle erano animate da nonne e bambini, da uomini che si raccontavano affari e da mamme che si scambiavano pettegolezzi e sensazioni della giornata. Care nonne, loro non avevano tempo per pettegolezzi, il rosario era la loro consolazione, la loro stampella per le fatiche di ogni giorno. I nonni taciturni , in un angolo, fumavano la pipa mentre giocavano a carte. Le mamme sempre inquiete, sempre desiderose di qualche cosa per i loro figli, parlavano dei loro mariti lontani per lavoro. I ragazzi e le ragazze sembravano essere avvolti in una magica atmosfera e si scambiavano sul letto di paglia figurine, fumetti e pizzicotti amorosi sotto lo sguardo benigno e sorridente delle nonne. Le mucche, distese a riposare sul letto di letame, con il fiato umido e caldo fungevano da termosifone e il suono lento e monotono del loro ruminare dava serenità. La sera, dopo cena , quando entravo nella stalla mi annunciavo con un grido “ Sòo scià! “( sono arrivato! ) Aprivo la pesante porta tirando con un colpo secco il catenaccio , spostavo la tenda ed ecco che il tepore caldo e umido della stalla mi assaliva, mi avvolgeva e subito dopo trovavo gradevole quel luogo. Dicevo “ Uéila , ‘n g’à sa tücc ? “( Salve, ci siamo tutti?) Ricordo con nostalgia quell’odore di povertà : eravamo più poveri ma forse più felici e buoni. Ricordo un fatto di bontà. In quell’inverno del 1950 in Contrada S. Maria vi era una bambina di nome Silvia. Ora è una nonna felice con tre bei nipotini, segno di benedizione del Signore. Papà Renzo e mamma Rita avevano una mucca , una stalla confortevole, dei boschi, selve e campi. Si ritenevano fortunati e avevano da mangiare in abbondanza. Allora non era così per tutti. In contrada Porta Milanese , proprio in fondo alla contrada di S. Maria, vi era una donna di nome Maria. Suo marito Carlo era morto quell’ estate di tubercolosi, aveva lavorato in Svizzera e si era ammalato. Maria era rimasta sola con tre figli, l’ultimo nato aveva sei mesi. Era una famiglia molto povera, che aveva poco o nulla da mangiare. Silvia lo seppe. In una di quelle fredde sere d’inverno si recò alla “ Santella”( Cappella) di S. Maria, si inginocchiò e pregò così: “ Càra Madòna , giüta la Marìa dél pör Càrlu , i sòofiöi i gà mìga dé mangià .”( Cara Madonna, aiuta Maria moglie del povero Carlo, i suoi figli non hanno da mangiare ). Quella sera, come tutte le sere, Silvia doveva portare il latte alla “ caséra “ ( latteria ), si caricò sulle spalle la “brénta” ( tinozza ) colma di dieci litri di latte e si avviò verso il “ büi vécc “( vecchia fontana ). Giunta però in Porta Milanese si ricordò di Maria e dei tre fratellini. Bussò alla loro porta e chiese se avevano mangiato. Che desolazione! Nessuno di loro aveva mangiato! Silvia diede loro metà del latte contenuto nella “ brénta“, poi portò il resto del latte alla “caséra”. Così fece per circa un mese. Quando si portava il latte alla “caséra”, il “ casaro “ pesava e annotava su un libretto la quantità del latte portato ogni giorno, poi lo versava nella grande vasca comune per fare il burro e il formaggio. Silvia sapeva che i genitori si sarebbero accorti del latte mancante, ma diede sempre la metà del latte contenuto nella sua “ brénta” a mamma Maria per sfamare i figlioli. Il “casaro “, pesando il latte che Silvia consegnava ogni sera, segnò esattamente la quantità del latte che Silvia ebbe da papà e mamma. Anzi, in quel periodo il burro e il formaggio che ebbero dalla “caséra “ fu della migliore qualità. Un bel giorno mamma Maria incontrò la mamma di Silvia e la ringraziò per averla aiutata nel momento del bisogno. Mamma Rita, in cuor suo esultò di gioia per il gesto di sua figlia, ma non fu dato a vedere. Tornata a casa mamma Rita abbracciò Silvia ed entrambe piansero per la commozione guardando i conti dei litri del latte che il “casaro” aveva segnato sul libricino del latte versato in quei giorni. Fu il “ casaro” a sbagliare i conti o fu la Madonna della “Santella di S. Maria “ ad aggiungere latte mancante nella “ brénta” di Silvia, bambina buona? Nessuno lo seppe mai. Ezio Maifrè

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