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La gastronomia tiranese ed il Natale d'altre epoche

CULTURA E SPETTACOLO - 20 12 2018 - Ivan Bormolini

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/il Natale d'altre epoche

Carissimi lettori, nella mia rubrica sulla storia tiranese, questo mese, non vi voglio parlare di eventi del passato che hanno caratterizzato momenti o fatti importantissimi. Semplicemente la mia indagine si basa su elementi più umili, spesso scordati ma che val la pena di annoverare.

 

Siamo vicini alle feste di Natale. Stiamo pensando a tavole imbandite per la cena della vigilia, oppure per il pranzo del venticinque dicembre. Poi verrà il tradizionale cenone di capodanno, zampone, cotechino e lenticchie e gli immancabili dolci che accompagnano il periodo di festa.

Vogliamo, non festeggiare il primo dell'anno con un altro pranzo? Ovvio che si, chi ben inizia è metà dell'opera, dice un famoso detto.

Poi, arriva l' Epifania, una ricorrenza un po' più povera, che tutte le feste si porta via! Però, non porta via, anche per nostra fortuna, quell'esercito di dietologi e nutrizionalisti, che su Tv e giornali, ci bacchettano e ci dicono che quel peso di troppo, acquisito tra banchetti, pranzi e cene va smaltito.

 

Usano parole come dieta, basata su doverosi canoni, oppure, movimento sano al fine di ritrovare la forma perduta.

Tutto lecito e tutto giusto, ci mancherebbe pure il contrario. Anche se i ricordi di quei cibi, di quelle tavolate in famiglia e tra amici ci hanno appesantito e prorio quei conviviali momenti, sono duri da scordare.

Alcuni giorni fa stavo leggendo su una vecchia collana de “Il Tiranese”, un bellissimo articolo scritto dal Dottor Domenico Corvi, un'abilissima penna la sua, capace di narrare la vita contadina della Tirano dei tempi che furono.

 

In quel lungo pezzo non si parlava, della cena della viglia di Natale, oppure di altre ricorrenze, dove oggi sedersi a tavola è consuetudine, ma si narrava la tavola nella cucina delle nostre umili famiglie contadine. Periodi storici in cui in molti casi, era faticoso mettere in accordo il pranzo con la cena, ed evidentemente anche il solo pranzo di Natale, senza ovviamamente pensare a San Silvestro, poteva essere era un problema. Nemmeno da pensare il cenone del 31 dicembre.

Forse proprio nella sera del 31 dicembre di quelle epoche, l'unica cosa sentita non era certo il veglione, ma era il recarsi nella parrocchiale di San Martino per la famosa Santa Messa, che si concludeva e termina ancor oggi, con il canto del Te Deum, ovvero l'inno cristiano di ringraziamento attribuito in origine a San Cipriano di Cartagine e musicato da diversi maestri tra cui Giuseppe Verdi.

Come diceva giustamente il “Menico”, ovvero il Dottor Corvi, già all'inizio dell'anno, nelle nostre famiglie contadine, si poteva stabilire il menù per i docici mesi successivi. La possibilità di sbagliarsi era poca, se non addirittura nulla. Magari, aggiungo io, in quel Te Deum, si ringraziava per quello che si aveva avuto, e si sperava di avere gli stessi umili benefici per l'anno seguente.

 

Fino a qualche anno fa, anche il mio compianto nonno “Geni”, classe 1927, durante il tradizionale pranzo di Natale, era solito ricordare, senza in alcun modo turbare o tediare, quelle vicissitudini e quella povertà.

Asseriva che se era possibile, risparmiare qualche soldo, nel giorno di Natale si faceva il “lesso”, e la sera quel brodo, insaporito dalla carne e dalle verdure era una prelibatezza con l'aggiunta di pane secco. Poche le concessioni per un risotto con lo zafferano.

Dunque tra le famiglie contadine di quella Tirano di ieri, la dieta era poco variegata per non dire forzata da ciò che si produceva. Le verdure, sapientemente coltivate tra opoli, orti e campi certo non mancavano e per le carni il maiale in tutte le sue parti nessuna esclusa, era una delle poche concessioni, ben difficile era potersi permettere altri tagli di carne di bovino.

 

Analizziamo dunque quel mangiare contadino.

I contadini che possedevano una o più mucche, avevano il latte, in alcuni casi si faceva il burro che in larghissima parte veniva venduto ai signori ricchi del borgo. Da questo mercato si ricavava il poco denaro utile per andare alla “bottega” e comprare qualche genere di prima necessità.

A mezzogiorno abbondavano le polente fatte in vari modi, i chiscioi ed i pizzoccheri, sicuramente non conditi con l'abbondanza dei giorni nostri, dalla coltivazione del grano saraceno si otteva un'ottima ed indispensabile farina.

La sera la cena era più modesta, non mancava la minestra e poi un po' di pane con del formaggio e qualche fetta di salume.

Parlando di cibo si potrebbe essere portati a pensare che non mancassero uova e pollame, oppure coniglio. Sia conigli che galline, comprese le uova erano oggetto di vendita ed il tutto contribuiva a far fronte alle spese ordinarie e straordinarie.

Il Dottor Corvi in quella bella descrizione parla anche del vino, lo definisce asprigno e afferma che assieme al magro formaggio non mancava sulle tavole. In estate ed in autunno gli orti e gli opoli davono buone verdure, così da quelle misere minestre si passava a fare qualche più sostanzioso minestrone.

In inverno non mancava la minestra di riso e latte, oppure la “papa de munt” ossia, un impasto di farine bianca e gialla cotte nel latte.

Vi era poi la “farinarsa”, un'impasto di farina fritta nel poco burro che i contadini trattenevano per se e per la famiglia.

 

Durante l'autunno un nuovo e nutriente alimento entrava in cucina, la castagna. Donne e bambini si recavano nelle nostre selve per raccogliere quest'umile ma indispensabile frutto che era considerato una manna che non veniva dal cielo, ma dai nostri castagneti in quei tempi ben tenuti e curati. Le castagne venivano preparate in vari modi e da esse si otteneva anche la farina di castagne, un alimento utilissimo per prepare vari piatti.

Vi ho prima citato il pane, un alimento che ieri come oggi è indispensabile. Questo veniva preparato dal “prestinè” a cui si portava la farina ed il sale, a questo artigiano si lasciava una certa quantità di pane come giusta ricompensa per la mano d'opera.

In questo caso, a seconda delle esigenze della famiglia e quindi basandosi anche sul numero dei componenti, si commissionava una “cocia” che corrispondeva a trentasei chili di pane, oppure “mezza cocia” , diciotto chili ed infine “ an pes”, ovvero otto chili.

Oggi siamo abituati ad avere il pane fresco tutti i giorni, magari ne spechiamo anche, ma un tempo quel pane fresco veniva gustato solo nel giorno in cui il panettiere lo preparava, per il resto lo si conservava con molta attenzione e nemmeno una briciola era gettata.

 

Questa grosso modo era la tavola dei contadini di ieri, tra quelle viuzze e quelle corti i sapori che uscivano dalle case erano sempre quelli, unica eccezione era quando in famiglia vi era un malato.

Esistevano infatti, dice il Dottor Corvi, dei piatti speciali da usarsi esclusivamente in caso di malati o puerpere in corso di allattamento dei pargoli.

Il “pantrid” era uno di questi, il piatto era una zuppa di pane grattuggiato con aggiunta di burro e magari anche qualche cucchiaio di olio di oliva. Il secondo era il “pancot”, ovvero pane cotto.

Se le possibilità economiche della famiglia lo consentivano, si poteva andare dal “bechee”, il macellaio, per acquistare un “giret de vedel” o del “biacustà”.

Ma torniamo al Natale di tantissimi anni fa e a quella tavola del giorno di festa. Anche una bellissima poesia dialettale del compianto maestro Aldo Pola ci racconta quella tavola, vi lascio la traduzione:

 

MAGIA DEL NATALE

Ancora pochi giorni e poi è Natale!

 

Erano gli anni dopo la crisi, la vita era magra, non c'erano soldi e tutto costava molto. Eppure.... Eppure in mezzo a tanta miseria, bastava parlare del Natale, per sentirsi, vai a capirlo, meno miseri e meno sfortunati.

 

E pensare che noi ragazzi raccoglievamo, in complesso, una manciata di arachidi, qualche nocciola, un pugno di noci e, chi era meno povero, la cupeta e un torrone!

 

Ma Natale era Natale: suonava il campanone e in chiesa, su all'altare c'era Gesù Bambino che sembrava proprio vivo; a mezzogiorno risotto, quello bel giallo con lo zafferano e anche un po' di lesso e talvolta anche un'arancia... Era il giorno più bello dell'anno, era proprio una gran festa! Quanta acqua è passata sotto i ponti da allora in poi!

 

Ma credetemi, se vi dico che anche oggi che non sono più ragazzo, quando sento pronunciare Natale, mi prende ancora qualcosa, nel cuore e giù in gola, che mi vien quasi da piangere!

 

FONTI 

  • “Il Tiranese n° 5, gennaio, febbraio, marzo 1977. Cooperativa Editrice Tiranese , viale Italia 91 23037 Tirano. Stampa Tipografia Bonazzi via Mazzini 23100 Sondrio. Anche le fotografie sono tratte dalla citata pubblicazione.
  • “Quanta aqua l'è pasàda”. Autore Aldo Pola. Stampa Tipografia Poletti s.n.c. Villa di Tirano agosto 1993

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