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I racconti del Menico: Progresso e decadenza

CULTURA E SPETTACOLO - 08 01 2021 - Domenico Corvi

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Gentili lettori, con questo articolo il dottor Domenico Corvi ci porta a compiere alcune riflessioni sul mondo bucolico di un tempo, sui ritmi della vita contadina e sull’abbandono di quella che per tantissimo tempo era una risorsa per le famiglie, ovvero la montagna. Buona lettura (I.B.)

 

Progresso e decadenza

( Di Domenico Corvi ) C'era un tempo in cui la vita dell'uomo era completamente condizionata dal mutare delle stagioni, perché alle stagioni era legata la vita degli animali domestici

e gli animali domestici erano l'unica ricchezza dell'uomo. Così l'uomo padrone diventava quasi schiavo delle sue bestie: era costretto a seguirne gli spostamenti in cerca

di foraggio, ad assecondarne tutte le esigenze e necessità perchè esclusivamente da essi dipendeva il suo benessere, se non addirittura la sua vita. Altre fonti di guadagno non ce n'erano; l'industria era una cosa di là da venire e solo la terra poteva dare nutrimento. Allora non si vedevano terreni incolti o boschi folti di arbusti come si vedono adesso: anche le selve più lontane dall’abitato erano pulite e verdeggianti come i parchi delle città, e questo non per gusto estetico spinto all’eccesso ma per pura necessità:

ogni foglia secca, ogni piccolo arbusto aveva il modo di essere utilizzato e nessuno si sarebbe mai sognato di raccogliere un ramo caduto dall'albero del vicino. Così questa necessità di procurarsi continuamente foraggio per gli animali e frutti per i propri bisogni, spingeva i poveri contadini che spesso, come dalle nostre parti, costituivano la quasi totalità della popolazione a continui spostamenti, seguendo il capriccio delle stagioni e l'andamento delle piogge.

Si veniva così a creare una specie di ciclica migrazione interna a ciclo chiuso che si ripeteva puntualmente ogni anno con minime variazioni nelle scadenze.

 

Direi che da noi tali migrazioni hanno resistito fino alla fine dell'ultima guerra, vale a dire fino agli anni cinquanta.

Ancora al tempo della mia fanciullezza le popolazioni agricole dei paesi attorno a Tirano, oltre ad una buona parte degli stessi Tiranesi, erano ancora use spostarsi periodicamente nell'arco dell'annata per portare le loro bestie verso pascoli sempre diversi. Noi oggi guardiamo alle montagne come a dei luoghi di villeggiatura dove si va fin dove l'automobile ci porta, e dove ci si rifugia quando il caldo della pianura diventa insopportabile; dopo si ritorna alle proprie comode dimore cittadine dove il freddo dell'inverno non può penetrare. E così ci siamo dimenticati che anche la montagna ha un'anima sua, un suo modo di vivere

e di trasformarsi direi quasi di vedere e di sentire e, se per caso viene abbandonata dall’uomo, che pur tante offese le reca, diventa come un’amante tradita: si intristisce e si chiude in se stessa; cancella i sentieri che la percorrono,

infittisce di cespugli il suo sottobosco e si chiude in un fitto di ombra e di silenzio dove le serpi ritrovano la loro sicurezza ed i muschi soffocano le piantine del mirtillo e dell'asparago selvatico, E' come una madre che dopo aver dato tutto ai propri figli, li vede allontanarsi ad uno ad uno inseguendo un miraggio di ricchezza e di benessere che li porta sempre più lontano.

Allora si incupisce nella sua tristezza e non trova più alcuna ragione di vita. Un tempo i boschi risuonavano continuamente di voci e di vita e non erano gli sgradevoli urli delle radioline a transistors o i ruggiti delle moto e delle automobili: erano i suoni armoniosi dell'opera del boscaiolo, erano i campanacci delle mucche al pascolo, erano il canto delle contadine che filavano la lana mentre accudivano al gregge o che spazzavano il sottobosco per procurarsi lo strame per le loro bestie.

E tutto questo fervore di vita e di attività si spostava su e giù per le pendici dei monti seguendo le regole imposte dalle stagioni e dalle necessità degli uomini.

Durante il lungo inverno i contadini abitavano le loro relativamente comode case di paese dove non mancava mai un bel camino acceso e dove il foraggio per gli animali

era stato prudentemente ed abbondantemente ammassato. Quando la primavera cominciava a coprire di verde le basi delle montagne, ci si spostava con le pecore e le capre verso la zona dei castagneti. Ogni nucleo familiare aveva la sua casetta nella selva, con la sua stalla ed il suo fienile. Lì non era necessario che si dislocasse tutta la famiglia : bastava un vecchio « barba » o qualche ragazzotto che, mentre badava alle greggi, provvedesse anche a liberare il castagneto dalle foglie cadute nel tardo autunno e dai sassi portati dalla neve e dalle frane.

Quando la primavera era più avanzata e la neve si era ritirata ormai sulle cime dei monti, allora ci si spostava verso metà montagna, al limite delle culture, dove ancora era possibile seminare la segale e le patate.

Qui si rimaneva per un periodo abbastanza lungo che in genere andava da aprile a giugno. Data la durata del soggiorno e la stagione ancora piuttosto fredda in montagna, qui le case venivano costruite con una certa cura e dotate di discreti comforts, anche se spesso venivano costruite in società fra vari gruppi familiari mettendo in comune la cucina e magari anche i posti letto.

Alla fine di giugno ci si spostava verso la montagna vera e propria, vale a dire al limite della vegetazione, dove i pascoli erano più abbondanti e dove le mucche trovavano il loro nutrimento per almeno tre, quattro mesi, risparmiando così il fieno di pianura per il lungo inverno. Anzi qui si falciava addirittura dell' altro fieno da portare a valle e da giugno ad agosto era tutto un susseguirsi di « priale » verso il basso e di « brozz » verso l'alto. A quei tempi qualsiasi orecchio appena un po' allenato poteva dire, senza vedere, da quale tipo di animale fosse tirato il carico: dal lento passo dei « manz » all'irruento incedere del mulo, al misurato passo guardingo del cavallo, il tutto accompagnato dall’allegro cigolio della “sèra” che cercava di frenare la corsa e dal gemito dei « priai » trascinati sul lucido selciato. Son rumori che ormai non si odono più : la tecnica moderna li ha cancellati per sempre. La casa di montagna veniva costruita con maggiore cura: qui venivano a passare l'estate anche i vecchi ed i bambini e quindi necessitava un riparo più sicuro ed accogliente, Un vecchio ciliegio o un nodoso noce faceva quasi sempre la guardia alla porta.

Più su ancora, oltre il limite della vegetazione, dove il freddo e la neve regnano quasi perenni, c'erano ancora gli alpeggi, ma qui, data la brevità del soggiorno e tenuto conto

del fatto che a guardare il gregge venivano destinati gli uomini più robusti, le abitazioni venivano ridotte a delle vere e proprie grotte per la notte ed in caso di temporali. Quando l'autunno cominciava a far arrossire le cime dei larici ed ingiallire la chioma delle betulle, allora era tempo di ridiscendere al basso. Si sostava ancora un poco a metà montagna per raccogliere le patate e mietere la segale, e poi si ridiscendeva completamente per la vendemmia ed il raccolto in pianura, prima di chiudersi definitivamente nel lungo letargo invernale. Ora tutte queste cose sembrano frutto di fantasia, lontane nostalgie legate ad un tempo ormai per sempre passato.

Eppure di tutte queste migrazioni e soggiorni, restano tuttora le vestigia a testimonianza che non sono poi molti gli anni trascorsi. Anche se l'illusione di una vita più comoda ha allontanato i nostri contadini dai monti, il bosco non è ancora riuscito del tutto a cancellare

le tracce dell'antica operosità. Dove poi una possibilità di guadagno è rimasta a dar coraggio alle genti, lì c'è stato addirittura uno sviluppo dei vecchi nuclei.

Basti pensare a frazioni come Baruffini o Cologna, per stare vicini al nostro paese, dove sono sorti dei veri e propri paesi ormai autonomi di fatto, anche se continuano ad essere considerati frazioni. Qui ha sicuramente giocato un notevole ruolo a favore anche il contrabbando ma quello che conta è il risultato finale. Invece, dove nessuna nuova ragione di guadagno è venuta a sostituire gli antichi interessi, là tutto è caduto in disfacimento e l'opera di secoli di fatiche è stata distrutta da pochi anni di incuria.

Ed è pur triste vedere questi borghi, dove una volta ferveva la vita, ridotti ormai a dei cumuli di rovine,ad ammassi informi di calcinacci e di tegole cadute fra le quali la vegetazione selvatica cresce lussureggiante e incontrastata.

Ma quel che è più triste è vedere le case abbandonate ancora pressoché intatte, addiruttura a volte con all’interno le stesse umili masserizie che un tempo avevano costituito tutta la ricchezza dei loro abitanti.

Ho visto case coi letti con ancora i pagliericci di foglie di granoturco lasciati li come se da un momento all’altro gli abitanti dovessero tornarvici a dormire, con ancora il cassettone ai piedi del letto, come fosse ancora preparato per accogliere il corredo della sposa.

Ma li di spose non se ne vedranno più; al massimo si vede ancora qualche vecchietta che non ha avuto più la forza o forse soltanto il coraggio di lasciare una casa in cui per lo meno conservava qualche ricordo.

Ultimamente le autorità preposte alle Comunità Montane hanno anche costruito delle nuove agevoli strade per cercare di invogliare i pochi rimasti a tener duro, ma alla fine anche queste strade non han fatto che rendere più agevole l’esodo degli ultimi rimasti.

 

La mancanza di uno scopo qualunque o della più piccola probabilità di un guadagno anche pur minimo hanno reso vana ogni possibilità di resistenza. Un paio di anni fa, chiamato per una visita in una località sopra Bianzone, non resistetti alla tentazione di spingermi fino in alto, verso le case della Bratta : la strada era agevole, larga e pianeggiante, anche se non asfaltata ed io volli spingermi fino in alto per vedere finalmente l'abitato. Ad un certo punto la strada finiva prima ancora di aver raggiunto le case; pensai che probabilmente i fondi erano finiti proprio prima che l'opera fosse del tutto compiuta e proseguii a piedi per vedere le case di quegli ultimi tenaci abitanti della montagna; ma quando giunsi davanti alla chiesa, pur ancora ben conservata come del resto le case attorno, non trovai che abbandono e silenzio: come in certi paesi del lontano West, dove la chiusura delle miniere provocava l'incontrollata fuga di tutti gli abitanti, così anche qui la impossibilità materiale di sopravvivere decentemente, aveva spopolato le case. Questo è solo un esempio: basti vedere da noi Roncaiola, Gilera, Biolo, S. Rocco, Marto, S. Cristina ;

tutti borghi dove ferveva una vita attiva per molti mesi dell’anno: ora tutto è silenzio e desolazione.

Qualche anno fa ricordo di aver percorso la strada che dalla statale dell'Aprica si diparte a sinistra per spingersi verso S. Cristina. Ricordo ancora la meraviglia davanti alla prima chiesetta ormai del tutto diroccata e poi l'accorato stupore quando giunsi al borgo vero e proprio, ancora con la sua chiesa, il suo

cimitero, l'eleganza delle mura di quella che doveva essere stata la residenza del clero; il tutto ancora perfettamente funzionale, ma irreparabilmente abbandonato. Mi spinsi ancora più su e provai ad entrare in una casa : l'uscio era appena accostato; dentro, il rustico letto era ancora coperto da uno strato di piante di segale che facevano da pagliericcio; ai piedi dello stesso letto lo scrigno che doveva aver contenuto la biancheria della famiglia e poi attrezzi di lavoro appoggiati alle pareti, tutti lasciati là come provvisoriamente, ma sicuramente destinati a non essere più recuperati se non da qualche nostalgico arredatore di ville in stile rustico. Dopo qualche anno ripassai dalla stessa strada. Giunto davanti ai ruderi della prima chiesetta, mi sedetti un momento a meditare sul muricciolo che fiancheggia la strada; poco dopo fui attratto da un fruscio sommesso ai miei piedi; abbassai gli occhi e vidi un lungo serpe nero che, dopo avermi fissato per un pò, se ne scappò indignato dalla mia intrusione.

Capii allora che lì la stagione degli uomini era ormai tramontata ed era tornata a dominare la natura selvatica e pertanto, chiesto mentalmente scusa al rettile per la mia inopportuna intrusione, risalii sulla mia auto e ritornai mesto e triste in mezzo alle miserie della civiltà.

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