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I “Filò” della Rina – AMORE DI CARBONE

CULTURA E SPETTACOLO - 22 04 2014 -

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/ Illustrazione di Wilma Del Simone
Illustrazione di Wilma Del Simone
Cosi raccontò la Rina e, alla fine della storia, per tre giorni tutti furono più buoni. Gennaio 1955. In quel tempo in contrada S. Maria vi erano due bambini di nome Carlo e Guido. Carlo era figlio di contadini poveri, mentre Guido era il figlio maggiore di ricchi commercianti di bestiame. I due erano amici per la pelle. Carlo portava i calzoni corti con le pezze sul sedere e scarpe bucate anche d’inverno, mentre Guido portava pantaloni lunghi e scarpe dalle grosse suole di gomma. Quel giorno erano all’oratorio e giocavano a pallone. Carlo si stropicciava le mani intirizzite e saltellava come un grillo per scaldarsi, mentre Guido, pacioso e poco mobile, sembrava fumare come un sigaro tanto era pasciuto e ben nutrito. Carlo sentiva l’aria fredda che gli morsicava i polpacci, le dite rigide dei piedi erano come martelli e le ginocchia dure come legno, ma con grande lena tirava pallonate in porta. Guido, portiere, ogni volta che raccoglieva il pallone in porta si grattava il sedere perché i mutandoni di lana gli arrostivano le tenere chiappe. Erano amici ma il loro mondo era diverso e lo scoprirono alcuni giorni dopo. Ecco i fatti. In quei giorni di gennaio, in contrada S. Maria, faceva un freddo terribile. Carlo dormiva in una stanzetta al piano terra, vicino al pollaio delle galline e quella mattina, appena svegliato, aveva trovato le coperte del letto rigide come cartone. Riuscì a malapena ad alzarsi perché le lenzuola non si piegavano tanto erano ghiacciate. Sui vetri della finestra della sua stanza i fiori del freddo formati dall’umidità erano tanto spessi da non poter vedere il pollaio accanto. Con sforzo, poiché la maniglia della finestra era bloccata dal ghiaccio, aveva aperto la finestra per controllare se anche le galline erano gelate. Il latte sopra il comodino , che la mamma gli aveva preparato la sera prima per colazione, era un tappo di ghiaccio bianco. L’amico Guido, invece, si era svegliato sudato. Così almeno lui diceva. I suoi amici maligni sghignazzavano tra loro e sussurravano che Guido pur avendo dodici anni faceva ancora pipì a letto. Quello era il suo sudore. Guido, appena alzato, aveva trovato la colazione fumante sul comodino e subito aveva mangiato una grossa fetta di torta . Questi erano i mondi di Carlo e Guido. Arrivò il giorno della Befana. Carlo era pensieroso perché aveva un camino piccolo, con una canna tanto stretta da passare a malapena un gatto. Guido felice e sorridente invece sapeva che dalla canna del suo camino poteva comodamente passare la Befana con una grandissima gerla carica di ogni ben di Dio. Carlo quella sera lasciò la calza appesa ad un chiodo del suo misero caminetto con dentro un foglietto con scritto: “ Cara Befana , per favore, portami del carbone perché io possa scaldare la mia stanzetta. ” Guido invece prese i suoi pantaloni, li appese a modo di calza sulla grande traversa metallica del suo grande camino. Strappò da un grosso quaderno un foglio e scrisse: “ Befana, portami cioccolata, torroni, panettoni e molti giocattoli; voglio che tu riempia le mie braghe di doni fin a farle scoppiare“. Quella notte la Befana passò per il camino stretto di Carlo, lesse il messaggio e mise nel calzino molti tronchetti di carbone. Agitando la bacchetta magica disse :” Taralì, taralò d’ora in avanti arderete sempre come falò!". Poi entrò nel grande camino di Guido con la sua grande gerla, lesse il foglietto e riempì le braghe di ogni ben di Dio. Agitando la bacchetta magica disse : “ Tarali, taralò, che a Guido tutti questi doni facciano buon prò.“ La Befana saltò sulla scopa e se ne andò. Al mattino Carlo tremante per il freddo vide i pezzi di carbone nella calza, li raccolse e accese la stufa della cucina. Da quel giorno i pezzi di carbone arsero senza fine scaldando tutta la casa. Carlo e i suoi genitori non ebbero più freddo. Guido alzatosi sudato vide appesi nel grande camino i suoi pantaloni gonfi di doni. Goloso come una scimmia , mangiò prima la cioccolata, poi i torroni e infine anche il panettone. Trascurò i giocattoli perché non erano commestibili e infine trangugiò la colazione fumante che la mamma gli aveva appena preparato. Al pomeriggio, come al solito, i due amici si trovarono all’oratorio. Carlo raccontò a Guido del carbone che la Befana gli aveva portato. Parlò del calore continuo che dava la stufa in cucina. Per lui quel carbone era stato un dono d’amore calato dal cielo. Guido si mise a ridere facendosi grandi massaggi alla pancia. Raccontò superbo la grande scorpacciata di dolci fatta e dei bei doni avuti dalla sua generosa Befana. D’un tratto, con un grido soffocato e con le mani poste in fondo alla schiena proprio sul cavallo dei pantaloni, corse dietro ad un albero. Non ebbe il tempo di calarsi le braghe che si udì un rumore, come di gorgo di lavandino seguito da cupi botti. Se l’era fatta addosso. Accovacciato dietro l’albero, con occhi imploranti e privo d’ogni superbia, si guardò intorno. Vide da lontano Carlo che gioioso tirava calci al pallone. Lentamente si guardò dietro il fondo schiena. Tutti i doni della Befana erano così sfumati e svaniti in potenti odori. Il freddo intenso morsicò il suo sedere come un cane rabbioso. Ricordò il carbone di Carlo che ardeva senza sosta scaldando la sua povera casa. Capì che un piccolo dono, anche se povero come il carbone donato dove c’è necessità, scalda la casa e i cuori , mentre il superfluo e l’abbondanza vanno presto in nonnulla , anzi molte volte fanno venire il male di pancia.

Ezio Maifrè

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