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GIORNO 5 - "LEILA THIRTYFOUR"

CULTURA E SPETTACOLO - 18 09 2015 -

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SARAJEVO Leila Thirtyfour ha gli occhi color primavera. Mentre le parlo, seduti in un bar del quartiere turco di Sarajevo, scopro tutte le sue qualità. Per esempio, riesce a girarsi le sigarette con una mano sola. Leila è laureata in filosofia e sociologia, ma oggi sta semplicemente sostituendo un collega ammalato. La incontriamo in un piccolo ufficio, piuttosto spoglio, che pubblicizza le piramidi bosniache. Già, a quanto pare intorno alla capitale ci sarebbero delle gigantesche costruzioni interrate, ne avevo già sentito parlare, ma dai suoi racconti non capisco se sia una cosa da scoppiatoni freak, o una cosa scientificamente e storicamente giustificata. Finisco il mio caffè e, mentre lei parla di energia, natura, antiche civiltà, io osservo "Emanuele l'archeologo" che mi pare dubbioso, me lo immagino che scuote la testa sussurrando tagliente: "Tutte cazzate". Non so dove stia la verità, ma non è quella che cerco adesso. Restiamo lì al sole a raccontarci le cose più strane per una mezz'oretta, poi Leila dice che possiamo andare. Ha deciso di darci una mano a cercare l'ostello del quale sappiamo soltanto il nome, cerca il posto sul computer del suo ufficio e telefona per noi. Il ragazzo all'altro capo del telefono però taglia corto, "Scusa scusa, sono proprio di fronte alla moschea sto entrando, tornerò tra circa veniti minuti, potete aspettare?", ormai è mezzogiorno di venerdì, eccovi spiegato come siamo a bere caffè al sole per le strade di Sarajevo. Mentre camminiamo verso l'ostello, Leila mi si avvicina ed inizia a raccontarmi di essere una madre single, ha una bambina di 4 anni che è meravigliosa, adesso è "al mare, al fiume" con i nonni, ed anche suo fratello, che vive con lei, è via per tutto questo weekend. Dice che ha una macchina, possiamo rivederci nel pomeriggio quando avrà finito di lavorare ed andare a farci un giro fuori Sarajevo, per noi sarebbe perfetto, sono le situazioni che ci piacciono. Prima di lasciarci ci scrive il numero di telefono e mi dice: "Remember, I'm Leila Thirtyfour!". Poco prima le avevamo spiegato del nostro viaggio, della ricerca, degli scritti e di quanto ci piace parlare con la gente. Le avevo spiegato che sarebbe diventata un soggetto, credo che sia quello il motivo per cui mi ha raccontato della sua famiglia. Non la rivedremo più, come a volte capita, le nostre strade si sono incontrate per caso e con la stessa semplicità si perderanno, basterà un numero di telefono che non funziona per un prefisso sbagliato o qualcosa del genere. Andiamo avanti o meglio, indietro. La sera prima di incontrare Leila, finalmente arriviamo a Sarajevo. Il bus di cui vi parlavo nel post precedente ci scarica in una stazione da qualche parte in città, è mezzanotte, è buio e solo due lampioni rischiarano la piazza. Non abbiamo la cartina e nemmeno un posto per dormire, vaghiamo verso la stazione dei taxi. Avete presente quelle cover rock di canzoni storiche riarrangiate? Che ne so, tipo la versione metal di bella ciao? Ecco, mi han sempre fatto abbastanza vomitare. Un taxista apre la portiera per parlarci e ci regala il primo suono di Sarajevo che le nostre orecchie possano sentire: una cover punk di "bandiera rossa". Partiamo verso il centro, ci si para davanti l'Holiday Inn tristemente famoso per via del suo bombardamento, ma non è questo il post in cui vi voglio parlare della storia della città, lasciamola da parte per un attimo e concentriamoci sulle impressioni. La radio dell'autobus continua a parlare di Srebrenica e va avanti per circa un paio di minuti, impossibile sperare di capire, sarà stata una qualche commemorazione a vent'anni esatti dal massacro. Il taxista ci scarica nel centro dove questa volta le nostre orecchie vengono violentate dai bassi di una qualche canzone tecno, musica elettronica insomma, la via è un carnaio, ragazzi in ogni dove riempiono le vie, ai lati Irish pub, disco pub e addirittura un vero double Decker londinese davanti al quale si ergono le statue di Stanlio e Olio. Storditi da questa inaspettata botta di vita ci facciamo largo tra la folla, nel mezzo una bionda mi prende per un braccio, mi tira verso di lei e mi accarezza proferendo parole che è divertente immaginarsi. Per evitare le sirene della movida, troviamo un piccolo ostello oltre il fiume Miljacka, passando dal ponte latino, quello tanto caro a Gavrilo Princip e Francesco Ferdinando per intenderci. La mattina seguente ci spostiamo nel nuovo ostello che un'amica ha prenotato per noi (siamo pieni di amiche!) e dopo aver incontrato Leila Thirtyfour restiamo tutto il pomeriggio in stanza, vogliamo finire il lavoro sui primi giorini per poi buttarci alla scoperta di Sarajevo. Oltre la nostra finestra canti, danze e musica anatolica, c'è l'esercito turco in piazza, alcuni politici e tutti i turchi di Sarajevo in festa, non appena il muezzin attacca con l'invito alla preghiera interrompo la scrittura e me lo godo sembra davvero di tornare ad Istanbul. Siamo alloggiati nella Bascarsija, il quartiere ottomano e la cosa, come immaginerete, mi garba assai.
Miralem Pjanic, centrocampista della Roma, è nato a Tuzla il 2 aprile 1990, non esattamente un ottimo periodo per scegliere di nascere nei Balcani. Fino al 2008 giocò con la nazionale di Lussemburgo, paese che gli diede la cittadinanza quando, poco dopo la sua nascita, la famiglia dovette fuggire dalla Bosnia. Stasera Pjanic è titolare, non potrebbe essere altrimenti, sarà a Zenica per giocare con la Bosnia contro Israele. In città, centinaia di schermi, letteralmente. Mentre prendiamo posto intuiamo che non sarà una partita normale. Le squadre giocano per la qualificazione ai mondiali o agli europei, non lo so di preciso, ma l'incontro con Israele, a Sarajevo pare prendere i tratti di un derby. Abbiamo cercato di comprare i biglietti, ma la partita sarà a Zenica e non avremmo idea di come tornare nella capitale dopo il match, ci accontentiamo di un bar del centro, all'ombra della cattedrale cattolica. Pensiamo che sarebbe bello vederne un tempo lì ed uno nel quartiere ebraico dove vivono i discendenti degli ebrei Sefarditi, ma nessuno di noi ha ancora idea di dove sia. La gente è tutta in strada, nei bar, avvolta in bandiere, sciarpe o magliette, tutte con i colori della Bosnia, le ragazze sono le più agguerrite, si accalorano, si disperano e per ognuno dei tre gol della Bosnia saltano in piedi, si abbracciano e per cinque minuti ballano sulla musica disco/tecno che parte dagli altoparlanti dei bar, coprendo il commento ed inondando le vie di Sarajevo con un terremoto di onde basse. A fine partita decidiamo di passeggiare da un estremo all'altro della città sul viale dei cecchini, attorno a noi caroselli, bandiere al vento, fuochi d'artificio per la strada e burnout. Per un attimo ci è sembrato di vedere questa società profondamente spaccata al suo interno, proprio nel momento in cui dalla felicità, chiudeva gli occhi stringendosi tutta intorno alla sua bandiera, e per qualche momento riusciva persino a dimenticarsi di tutto il resto.  
DIARIO BALCANICO di L. Cometti GIORNO 0 – “Piccola premessa doverosa” GIORNO 1 – “Cosa andate a fare a Belgrado?” GIORNO 2 – “Gli scarafaggi muoiono sulla schiena” GIORNO 3 – “Le anime di Vukovar” GIORNO 4 – “La resa di Doboj” GIORNO 5 – “Leila Thirtyfour” GIORNO 6 – “Darko” GIORNO 7 – “Dove la logica si arrende, la Bosnia comincia, Aisha” GIORNO 8 – “Le bandiere” GIORNO 9 – “Viaggio in Republica Srpska” GIORNO 10 – “Decompressione”

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